Cesare Zaccaria

Socializzazione : mito e realtà

(1946)

 



Nota

Una analisi dettagliata sul perché è necessario un superamento del salariato e una gestione diretta delle attività produttive, senza più padroni politici (lo stato) ed economici (i capitalisti). Un testo che, nonostante risalga alla metà del secolo scorso, ha ancora da offrire parecchi spunti interessanti di riflessione e di azione.

Fonte: Cesare Zaccaria, Socializzazione: mito e realtà, Volontà, Anno I, Luglio - Ottobre 1946.

 


 

Una spinta irresistibile, canalizzata attorno al moto della socializzazione, è viva in tutti i paesi, in uomini di condizioni e cultura diversissime. Da Roosevelt ed il suo brain-trust che all’origine interpretava l’aspirazione della gente media americana verso il trapasso dal rugged individualism ad un tipo d’uomo più social minded, fino a noi anarchici che in modi opposti portiamo da sempre nel mondo la voce della solidarietà come complemento indispensabile perché le lotte tra uomini diventino, anziché zoologiche, in altri modi umane. Da Marx visionario di scienza imprigionato nella logica, fino ai laburisti che stanno “statizzando” le attività economiche del popolo inglese. Dai miti “Governi socialisti” dei paesi scandinavi, fino al tentativo nazista e fascista d’una società fondata sul’Autorità, ed al lavorio istituzionale che in Russia sta stabilizzando la disuguaglianza tra una nuova casta dominante ed una nuova casta di servi. Le tendenze più disparate sfociano tutte nella magica idea della socializzazione seppur intesa da ciascuno con limiti diversi.

I Partiti si pongono tutti nella scia di tale moto, cercando di accelerarlo o frenarlo, secondo i propri fini. La parola “socializzazione” è nei programmi di tutti, anche dei conservatori più ostinati: perché il mito s’è fatto ormai diffuso e potente. Ed è fuori dubbio che in tale mito, ansito profondo della umanità d’oggi, si ritrova la volontà eterna degli uomini verso forme sociali di sempre più diffusa e concreta libertà. La maggiore servitù superstite del nostro tempo è il lavoro salariato: quanto più esso diviene collettivo per le esigenze della meccanizzazione tanto più diventa servile. E nel mito della socializzazione agisce appunto - moto di libertà - la tendenza a cancellare il predominio individuale nella gestione del lavoro che sta alla radice di questa essenziale servitù.

Tra le origini del mito, che sarebbe utile analizzare nei loro aspetti molteplici, v’è una idea assai nota: la socializzazione totale dei mezzi di produzione e di scambio formulata da Marx cent’anni fa. Marx, pensatore multiforme e contraddittorio, s’è talmente diffuso che mille lo interpretano ciascuno a modo suo: e tutti ne prendono l’avvio dialetticamente meccanicista per cui la sede della verità progressiva sta nella sistemazione logica dei problemi economici. Ma è facile vedere che quella visione schematica della socializzazione non ha oggi più, nella forma e nel senso originali, alcuna vitalità.

È ormai chiaro come sia falso negli effetti pratici - a parte quanto sia errato in teoria - il concetto usuale della collettivizzazione della proprietà. Passare il possesso dalle mani vive di pochi individui che ne usano a proprio arbitrio e per sé, nelle mani metaforiche della Comunità o dello Stato o d’altri analoghi Enti che ne dovrebbero fare uso per tutti, significa di fatto trasferire il possesso ai gruppi determinati d’uomini nei quali quegli Enti acquistano concretezza, e anch’essi finiscono per usarne ad arbitrio e a vantaggio proprio. L’esperienza storica della Russia - ed in fondo anche la stessa esperienza italiana del fascismo, così diversa - insegnano che tale “proprietà collettiva” è una pura funzione giuridica. Gli amministratori della “proprietà collettiva” agiscono di fatto come i vecchi proprietari: comandano. Di fatto, anche se non è loro consentito di possedere officine e fattorie, si costituiscono una proprietà personale: una condizione privilegiata di vita, che ricostruisce frontiere di classe, che fissa gli altri nella necessità di ubbidire. La libertà resta di pochi. Ed è caratteristico che questi pochi, presa nelle loro mani l’autorità sociale, si costruiscono una certa misura di proprietà personale e proprio come strumento e garanzia della loro libertà.

Si conferma così l’antica verità che la proprietà di pochi è destinata a diventare oppressiva, in ogni caso appunto, perché è di pochi. Ma d’altra parte appare una nuova luce: la proprietà personale è, per chi possiede, libertà. Noi siamo quindi portati ad abbandonare le vecchie strade, costruite sul vento delle teorie, e ci volgiamo ad interrogare l’esperienza quotidiana, l’esperienza storica. Vediamo che nel nostro paese gran parte di ciò che si dice “proprietà privata” è in mano di lavoratori, contadini diretti coltivatori e artigiani, che ne usano per sé e per la propria famiglia. Una tale forma di lavoro appare irragionevole sul piano della efficienza tecnica, ma è assai ragionevole sul piano della indipendenza personale, se si pensa alle tante forze che la contrastano nella presente vita sociale. E l’esperienza spagnola - positivamente - e quella russa - negativamente - ci confermano che ogni sostituzione dall’alto di “collettività di lavoro” al lavoro individuale e familiare è negatrice di libertà, come invece ogni spontanea associazione per il lavoro collettivo costruisce vera libertà. Siamo quindi portati a chiederci se, anziché tendere ad una astratta “proprietà collettiva” realizzata dall’alto togliendo a tutti la loro attuale proprietà, non sarebbe più saggio affermare oggi una concreta volontà di “proprietà per tutti”, costruita assicurando la proprietà singolarmente a ciascuno in modi tali che nessuno ne fosse eccettuato e nessuno potesse giovarsene a danno del suo prossimo.

È vero che la proprietà si traduce in indipendenza per chi la ha. Ma è anche vero che la proprietà genera, sotto certe condizioni, la siepe con cui il cupido proprietario circonda il “suo”: e dallo spirito di proprietà nasce allora lo spirito di autorità, e l’uomo si fa lupo all’uomo. Come quindi conciliare queste due antitetiche esigenze? Come dare a tutti la proprietà? Come evitare che divenga strumento di prevalenza, che ricostituisca nel tempo i possidenti e i non-possidenti?

Queste sono, fuori delle teorie e dei dogmi, le domande che si pongono nel nostro tempo gli uomini pensosi dell’avvenire. L’esperienza giacobina francese degli anni dopo il 1789 ha affermato la libertà giuridica con una Legge che consacrava la prevalenza sociale dei pochi più feroci, aprendo ad essi la via alla conquista della proprietà, lasciando intatta la miseria delle moltitudini. L’esperienza giacobina russa degli anni dopo il 1918 ha tentato di portare in primo piano la moltitudine e di cancellare la lotta per la proprietà, ma ha lasciato unghie e rostro di Legge ai pochi, ed essi si sono ugualmente costruita una nuova prevalenza sociale. Siamo oggi a questo risultato paradossale, che i possidenti hanno, verso i non possidenti, meno doveri reali che gli antichi padroni verso gli schiavi.

Quale è la nostra via?


La proprietà

Il senso comune suggerisce che “la proprietà” non è oggi un concetto al quale corrisponda una realtà omogenea. Vi è proprietà e proprietà. E nell’uomo e nella donna agiscono, dal punto di vista sociale, due tensioni simultanee: la proprietà è affermata, la proprietà è negata, secondo i caratteri differenti che essa assume nella nostra vita di oggi.Il senso comune suggerisce che “la proprietà” non è oggi un concetto al quale corrisponda una realtà omogenea. Vi è proprietà e proprietà. E nell’uomo e nella donna agiscono, dal punto di vista sociale, due tensioni simultanee: la proprietà è affermata, la proprietà è negata, secondo i caratteri differenti che essa assume nella nostra vita di oggi.

Vi è un argomento, un diluvio di discorsi. Ma una idea pare chiara per tutti, anche se non tutti hanno coraggio di formularla espressamente: esiste una proprietà personale insopprimibile, la quale risponde ad una esigenza di libertà di ciascuno e dà ad essa la necessaria stabilità.

Il contadino, che dopo anni di stenti riesce a farsi una casa propria e ad acquistare una piccola terra per coltivarla con la sua famiglia, non insegue illusioni: conquista la possibilità di sussistere e di lavorare a modo suo, senza dipendere dalla catena d’un salario. Quella conquista egli ama, sente aderente a sé, come un prolungamento della sua personalità. Non si può farlo pensare a rinunciarvi entro la cornice sociale presente. Lo stesso accade per il pescatore che si è fatto una barca e le reti. Per me che mi sono lentamente costituito un piccolo insieme di libri, di dischi, di strumenti, il quale è, pur con le sue insufficienze, rispondente ai modi del mio lavoro. Per il mio amico fabbro che sotto la pressione del boicottaggio fascista ha duramente lavorato tanti anni per costruirsi il laboratorio suo, ed è ora felice di lavorarvi assieme al figliolo.

È questa la proprietà personale che s’espande in proprietà familiare che è radicata in determinati bisogni di uso ed in concrete possibilità di uso. Essa non è negabile. Anzi, va affermata quale diritto elementare di tutti, che ciascuno vi trovi, a suo modo, la garanzia minima effettiva della propria indipendenza.

Tale forma oggi necessaria di proprietà ha però in sé stessa un limite insuperabile: l’uso. Il legame tra l’uomo e le sue cose sussiste con verità soltanto finché egli ne usa. Appena egli cessi di adoperarle il legame si estingue, e solo un atto di forza può mantenerlo. Perciò la proprietà diviene tossica, allora, e trasforma l’uomo in bestia da preda. Nessuna violazione di libertà può nascere dal fatto della proprietà, finché nel proprietario coincidono il possesso e l’uso. E per contro, ogni affermazione di proprietà non vincolata dal fatto dell’uso conduce necessariamente ad una violazione di libertà. Sempre che possedere significa soltanto avere la sicura disponibilità delle cose che si vogliono e si possono adoperare nel vivere quotidiano, non è pensabile alcuna obiezione libertaria. Ma quando possedere significa invece assicurarsi la preminenza stabile e certa nella gestione dei beni i quali di fatto non si possono usare senza la collaborazione di altri che dalla proprietà sono esclusi, allora i proprietari acquistano il potere di indirizzare a loro arbitrio l’opera dei lavoratori, di prelevare a loro arbitrio parte dei prodotti del lavoro: si genera una ben determinata iniquità sociale. E mentre sul terreno economico essa non è chiara (quante analisi e contrasti tra gli economisti!) essa si mostra limpida ed evidente sul terreno umano della volontà di libertà.

L’uso personale giustifica la proprietà personale. Le idee di rinunzia a questa proprietà sono, per noi uomini d’oggi, astrazioni - di chi s’innamora dei propri concetti logici fino a generalizzarli, dimenticando che la vita umana procede necessariamente per simultaneità di elementi diversi e spesso alogici e contraddittori. Ma ciò non toglie che appena l’uso è di due, ed uno solo dei due è il “proprietario”, questi ha dal possesso la posizione di “colui che comanda”, ed all’altro non rimane che la condizione di “colui che ubbidisce”, eufemistica versione moderna dei due termini antichi padrone-schiavo. E così accade anche se chi comanda non ha il titolo giuridico della proprietà: basta che abbia l’arbitrio dell’uso, come si sta sperimentando in Russia e in America, con le aziende di Stato e con le grandi anonime. L’attribuzione della proprietà (o del controllo sull’uso della proprietà) ad uno solo tra i due è pensabile soltanto entro il quadro necessario d’una qualche forma di servitù. Non può sussistere se i due sono veramente liberi: cioè se la società in cui essi vivono non ammette vincoli di dipendenza, né giuridici né di fatto. Chi tende a realizzare una tale effettiva equità sociale, modo di libertà concreta per sé e per il suo prossimo, è quindi condotto a volere che la proprietà - intesa nella sua sostanza, cioè come controllo dell’uso - sia di due appena l’uso è di due.

Verità più che mai evidente nel caso-limite del nostro tempo, la grande fabbrica, la grande fattoria, il grande negozio, dove l’uso è di mille o diecimila, e la proprietà d’uno o di pochi (od anche di molti, ma che non sono gli stessi molti impegnati nell’uso) mantiene i mille, i diecimila, legati alla catena del salario, oppressi dalla angosciosa certezza che “se domani non si lavora non v’è modo di sussistere ancora”, deformati dalla angosciosa necessità d’una lotta senza requie, d’una lotta che può anche diventare inumana, contro la volontà inique de “i padroni”.

Nella critica di una così enorme ingiustizia, responsabile in gran parte delle stupidità e bestialità tuttora dominanti nelle società umane anche più “civili”, il senso comune suggerisce agli uomini e donne di buona volontà un mezzo semplice e sicuro per cancellare la servitù propria e del proprio prossimo: sommare i due fatti del possesso e dell’uso nelle stesse persone, fare di questa identità la condizione della proprietà.

Le altre combinazioni possibili della proprietà e dell’uso sono già sperimentate. Il terreno di prova più evidente si è avuto nella proprietà dei mezzi e strumenti di lavoro. E con tutti i metodi l’esito è stato negativo. Il proprietario assoluto, quale ci è venuto in eredità dal Diritto Romano, ha dato con la sua volontà di profitto la tensione interna particolare di ogni azienda in cui sta la forza radicale della società capitalista. Ma egli si è rivelato incapace di dirigere le possibilità immani del macchinismo, la cui gestione vuole di necessità la collaborazione di molti e tutti appassionati. Si è determinato lo sfasamento che tutti avvertono tra la conquista scientifica e tecnica e la capacità nostra di usarne a fini umani. I due tentativi di rimediare alla deficienza - 1) la Società Anonima, entro il quadro del capitalismo privato, 2) la gestione di Stato nel quadro del capitalismo pubblico - si sono dimostrati anch’essi inefficaci. In America come in Russia, su piano tecnico come su quello finanziario (più o meno secondo il quanto di libertà lasciato ai lavoratori dai due regimi) l’azienda va perdendo l’anima con lo sparire del proprietario singolo, né vi si surroga un’anima nuova perché la proprietà resta estranea all’uso, ed il controllo dell’uso degenera in burocrazia, estranea o nemica per i lavoratori. La dimostrazione ne sta, evidente, nella crisi che seguita, nell’imperialismo in cui si imprigionano sempre più tutti i Governi, nella guerra divenuta ormai endemica. La spiegazione ne è immediata: non in complicate analisi economiche, ma nel fatto elementare che in tali modi di possedere persiste sempre una violazione di libertà, e quindi essi non possono avere alcuna efficacia durevole. E la sola via d’uscita appare questa: la volontà di tutti coloro che partecipano al lavoro abbiano davvero modo di partecipare alla gestione. In termini attuali: tutti i lavoratori di ogni singola azienda ne siano i proprietari, e nessun altro che loro possano interferire nella loro attività. Cioè, appunto la distribuzione dei beni in proprietà esclusiva a chi direttamente li usa.

Nella affermazione di una volontà così semplice possono confluire le più diverse critiche delle forme sociali presenti: gli epigoni socialisti e comunisti di Marx, i socialisti non marxisti, noi anarchici che facciamo parte da soli, i teorizzatori di terze vie, i sognatori di rivoluzioni per consenso, tutti, in quanto avvertiamo la terribile fissità delle disuguaglianze sociali in atto, sorgente perpetua di crisi.

Il titolo giuridico della proprietà ed il controllo dell’uso non più disgiunti né disgiungibili dalle persone fisiche che usano le cose possedute. Attribuire - oltre il campo ristretto della proprietà di cose d’uso personale, per cui non v’è bisogno di alcun provvedimento sociale - la proprietà di ogni determinata fabbrica o fattoria o negozio, a tutti ed a ciascuno dei lavoratori impiegati in quella fabbrica o fattoria o negozio, includendovi anche i proprietari presenti se partecipano al comune lavoro, com’è in molti casi. E dicendo i lavoratori s’intendano gli uomini e donne singoli, le persone fisiche determinate, senza possibilità di rappresentanze, senza attribuzioni ad Enti collettivi fittizi: perché nelle condizioni presenti tali Enti esistono come gruppi d’uomini che li amministrano, e questi gruppi costruiscono poi fatalmente la propria preminenza. Tali limitazioni espresse mutano il tessuto giuridico della proprietà, ma ne mutano anche il suo modo d’essere in atto, ne cancellano il contenuto antilibertario.

Finché alcuni hanno modo di comandare, gli altri debbono ubbidire o trasferirsi tra chi comanda. S’è visto in Russia. Le aziende “collettivizzate” hanno immesso lo Stato al posto dei capitalisti nel titolo di proprietà; ma poiché lo Stato di per sé non esiste, l’esercizio del diritto di proprietà - come controllo dell’uso di essa - è stato attribuito ad una casta di tecnocrati che via via organizza il proprio prepotere sociale: ed i lavoratori restano salariati, cioè servi. V’è forse un guadagno di benessere: ma dov’è il guadagno di libertà? E a chi giova allora, poiché anche il benessere senza la libertà è inerte, improduttivo d’avvenire? In senso diverso si vede in America la stessa desolante conclusione. Atomizzata la proprietà tra gli azionisti dell’anonima, spersonalizzato il controllo dell’uso in piccoli clan di dirigenti, eccitati i lavoratori - considerati come “una ruota della macchina” - a produzioni migliori e meno costose, con una partecipazione effettiva ai benefici risultanti, il lavoro si va facendo nemico del lavoratore, il quale resta più che mai salariato, cioè servo. E l’elevato tenore di vita si disperde in una vita sostanzialmente asociale, nonostante gli immani sforzi di educazione alla socialità, con tutti gli effetti degradanti della mancanza di libertà.

Dobbiamo ammettere che tutti i facili slogan antichi sulla proprietà si mostrano insufficienti. Oggi il fatto della proprietà è divenuto assai più complesso di quanto fosse prevedibile. Vuole provvedimenti che conservino nell’uso della proprietà la tensione progressiva del capitalismo, ma facendo della proprietà, alfine, uno strumento per la libertà di tutti, non per la libertà di pochi. Su questa via, apportandosi nel lavoro il contributo effettivo di tutti, non solo per la esecuzione ma anche per il pensiero di insieme che è la gestione, la macchina tornerà serva dell’uomo, l’officina e la fattoria si subordineranno al lavoratore, l’espandersi finora incontrollato del macchinismo troverà i suoi freni umani, si andrà verso un nuovo ed attivo equilibrio sociale. Ma il punto di partenza, insopprimibile, è questo oggi nostro, sono queste forme nostre di vita e di lavoro che non è possibile cancellare: in esse noi dobbiamo inserire il fenomeno di libertà senza cui non potranno mai modificare la loro intima sostanza.

Per quest’opera, bisogna rendersi conto che nella nostra condizione attuale il possesso mostra un viso umano solo quando è rapporto tra una persona determinata e le cose determinate che essa usa. Bisogna ammettere che allora, e soltanto allora, il fatto di possedere non solo consente ma promuove maggiore libertà.

Finché l’uso è d’un uomo e d’una donna singoli, anche la proprietà rimane individuale. È la “proprietà personale”: che si modifica secondo la volontà del proprietario ma cessa con la sua morte (io posso regalare ciò che posseggo ad altri che lo usi, ma non posso lasciarlo in eredità ad uno che non lo usi).

Quando l’uso è comune ad una famiglia, anche la proprietà, che è “proprietà familiare” resta indivisa di ciascuno e tutti i membri di quella famiglia: si divide quando di fatto l’uso viene a frazionarsi tra di essi, e cessa se la famiglia intera scompare (noi abbiamo insieme una casa, noi la dividiamo in due perché due gruppi possano vivere vicini in maggiore libertà, la casa resta a disposizione di altri che la occupino se noi ci allontaniamo definitivamente da essa).

Quando molti si riuniscono in associazione spontanea entro la quale usano un insieme determinato di cose, la proprietà di tali cose è di ciascuno e tutti e solo gli uomini e donne che vi partecipano: ed essa, “proprietà collettiva”, è analogamente indivisa ma divisibile ma non trasmissibile per eredità, cioè può e deve seguire i modi dell’uso (lavoriamo insieme in una fattoria che è di tutti noi e soltanto di noi, la dividiamo in due fattorie se ci dividiamo in due gruppi per indirizzi di lavoro diversi, è aperta la via all’ammissione di altri compagni con o senza altre proprietà, ma se si abbandona la fattoria non si può lasciarla ad altri che al nuovo gruppo il quale di fatto ne assumerà l’uso).

Chiudono la progressione le cose di uso indifferenziato che restano a disposizione di tutti in una certa comunità: ed esse costituiscono, entro il Comune o la Regione o la Nazione od oltre, la “proprietà pubblica” o meglio, se si vuole, la “proprietà comune” che è e resta di tutti, indivisa e indivisibile e definitivamente non trasmissibile (tutti usiamo il telefono: nessuno può assumere il controllo delle aziende telefoniche all’infuori dell’insieme dei loro utenti e lavoratori, che sono due gruppi in perpetuo rinnovamento pur senza alcuna “successione”).

La distribuzione delle cose d’uso in “proprietà personali”, “proprietà familiari”, “proprietà collettive”, “proprietà comuni”, esiste già anche oggi in potenza. Ciascuno di questi gradi tende ad espandersi nel grado successivo. La vita sociale si va facendo talmente complessa - per il macchinismo e la diffusione della cultura - che sfugge al controllo d’uno o di pochi. È in atto il moto verso il controllo di tutti. Ad esso si oppone il grande sforzo di conservazione delle disuguaglianze sociali che si esprime nelle illusorie “partecipazioni alla gestione” e nelle illusorie “nazionalizzazioni”. Ma stiamo avviandoci, sulla strada maestra delle rivoluzioni, a vere socializzazioni. Questa volontà di diffusione della proprietà e del controllo sulla proprietà è la causa della tensione sociale che tutti percepiscono, volta a realizzare una relativa maggiore libertà per l’uomo comune.

Chiunque pensi il presente e l’avvenire avverte il progressivo trasmutarsi del carattere delle cose d’uso nel senso di estendere sempre più il possesso comune. Perciò noi siamo come orientamento comunisti, a modo nostro. [1] Ma poiché gli uomini sono e resteranno sempre diversi, ed accanto ai molti che sono portati al lavoro collettivo ed alla vita di gruppo sussisteranno sempre anche i molti che sono portati al lavoro più individuale ed alla vita più solitaria, non è possibile immaginare che si giunga a forme sociali che realizzino l’uniformità. Ogni tentativo in quel senso deve includere qualche grado di coercizione, è essenzialmente antilibertario, è un errore, non può sussistere che in modo precario. È inutile quindi pensare schemi sociali validi per tutti. Non giova a nulla immaginare ora un avvenire lontano in cui tutto sarà proprietà di tutti, pur essendo ciascuno re di sé stesso. Noi ne siamo persuasi, per ragioni profonde che non abbisognano d’essere puntellate da conferme logiche. Ma ciò che importa oggi è chiederci: con quali istituti - cioè con quali convenzioni sociali liberamente sorgenti dalla azione di tutti - possiamo noi sperare e quindi volere che la proprietà in tutte le sue forme possibili costituisca un supporto per la libertà concreta di ciascuno, anziché il veicolo del dominio di pochi? Come indirizzare a tal fine la nostra azione politica d’oggi, con questi uomini e donne d’oggi che siamo noi, colti e ignoranti, civile e barbari, sani e malati?

Visto il vero volto della proprietà. che oggi è nemica ed amica, ma soprattutto nemica, ed invece domani potrà essere soprattutto amica, si pone dinnanzi a noi nella sua vastità il mito della socializzazione. Esso è indeterminato, come tutti i miti. Ma anche esso, come tutti i miti sorti spontanei nelle moltitudini, dimostra la consistenza e l’urgenza del problema che esprime.

Che è dunque oggi, per noi, socializzare?

L'esame delle tendenze sociali in atto tra noi deve darci la risposta, non già le teorie. Dobbiamo procedere aderenti agli uomini, ai fatti ed alle volontà per le quali più diffuso è il consenso a socializzare in qualche modo, ed i pochi oppositori son mossi sopratutto dalla considerazione ristretta di loro particolari interessi.

Nella macchina di cose intervincolate che è il supporto fisico della nostra vita sociale v'è un campo in cui l'uso è di tutti, indistintamente: ed è un campo sempre più esteso. Si è venuta operando nella nostra società una trasformazione profonda. Le moltitudini lavorano per le moltitudini: non più per uno od una casta son riservati i prodotti della loro fatica. Perché la specie e la quantità delle cose manifatturate che l'uomo e la donna comuni vogliono avere, cioè a cui per costume tutti hanno diritto, sono enormemente maggiorate, e seguitano ad aumentare.

Questo moto pare a taluni un effetto, ma più nel profondo è una causa, della estensione progressiva del macchinismo. In pratica tutti vogliamo, e quindi dobbiamo, trovare a disposizione per la vita d'ogni giorno fatta sempre più complessa i mezzi per servizi che in tempi non molto lontani erano riservati a pochi privilegiati. Ricordo mio padre che aggiungeva ogni mattina ed ogni sera alla fatica delle dodici ore d'officina la camminata d'alcune ore tra la casa e la fabbrica. Oggi vi sono ancora luoghi in cui accade qualcosa di analogo, ma il costume non lo sanziona più. Tutti lo sentono ingiusto. Al limite, l'America ci mostra con il miracolo meccanico delle sue città come sia divenuto ovvio diritto di tutti un insieme immane di servizi che sono ugualmente necessari per tutti, e in forme per tutti uguali, senza più distinzioni.

Tali servizi di tutti per tutti costituiscono, in contrapposizione alle cose d'uso personale, gruppi di cose per i quai il possesso individuale - inteso nel suo valore attuale di preminenza personale nella gestione - perde ogni senso definito ed ogni pratica efficacia. Sono tipici saggi di "uso comune" le strade e le ferrovie, le scuole e gli ospedali, la posta ed il telegrafo ed il telefono, ecc. E di fatto anche i più ciechi ammettono come ovvio che in tutti i paesi le ferrovie, ad es., tendano a passare sempre estesamente sotto controlli di natura pubblica. Tutti trovano che è bene, o quasi tutti. Senza imposizione di leggi, senza opposizione più nemmeno d'interessi, non v'è città oggi che non abbia la sua centrale del latte, la sua officina del gas, tutte o quasi sorte per iniziativa pubblica. Il senso comune addita questa via.

Appare chiaro che non è più possibile far dipendere l'efficienza e la stabilità di questi mezzi d'uso comune dalla competizione tra privati. Tra le esperienze molteplici dell'America, il limitato intervento pubblico dei controlli da parte delle burocrazie di Stato s'è dimostrato inefficace: segno della vanità di ogni rimedio che non attacchi il male alla radice, cioè nella proprietà in mano di privati. Questa può mantenere anche servizi inefficienti rispetto al loro fine sociale, con danno di tutti per il vantaggio di pochi, con un evidente sacrificio di libertà. Perciò in questo primo gruppo di socializzazioni concordano tutti gli uomini e donne di buona volontà. E tutti cercano di costruire - costruire, non progettare - forme di gestione che escludano ogni preminenza personale e di casta, e che assicurino la partecipazione attiva di tutti gli interessati: cioè delle moltitudini che si giovano del servizio e dei lavoratori che, in esso sono occupati.

Un primo concreto avvio di "socializzazione" è così constatato già vivo nel consenso di tutti, nella volontà di tutti: sottomettere a gestione pubblica ogni servizio che sia d'uso comune ed indifferenziato.

Le miniere di carbone, i pozzi di petrolio, i bacini idrici, tutte le sorgenti di energia, sono divenute anch'esse di fatto una necessità comune ed indifferenziata. A nessuno importa che la corrente per la sua casa o il suo laboratorio gli sia fornita da Tizio o da Caio. Ed a tutti è invece evidente che la libera competizione del lavoro può essere gravemente disturbata da intromissioni arbitrarie se la produzione e la distribuzione dell'energia rimangono soggette a controllo di pochi e piegate al loro profitto. E da tali criteri negativi, e dal fatto che il lavoro libero di tutti può essere fortemente aiutato da un'equa offerta di energia prodotta per l'uso comune, viene acquistando definizione questo altro campo di gestione pubblica.

Nel nostro tempo una tale volontà viene rinforzandosi anche per un'altra via: perché il controllo privato non tollera che pesino gli interessi propri dei lavoratori nelle forme di produzione dell'energia. Gli esperimenti russi di gasificazione del carbone in sito, senza estrazione, o la coltivazione meccanizzata dei filoni esperimentata in America, che aboliscono od attenuano la fatica inumana del minatore, possono risultare poco convenienti per il bilancio di un proprietario di miniera: ma essi sono vantaggiosi nel bilancio umano della comunità che usa il carbone, e che include i minatori. Contro tali errori si precisa sempre più un'altra tendenza di socializzazione: intesa a realizzare un'equità permanente nel lavoro con l'assicurare a tutti uguali opportunità iniziali, intesa ad evitare che un bene comune costi ad alcuni sforzi troppo più gravi che ad altri.

Si ritrova quindi un'altra volontà di maggiore libertà. Ed anch'essa - volontà di socializzare le sorgenti di energia - determina il problema di creare forme di gestione per cui esse siano amministrate dalle comunità singole a cui l'energia è destinata per l'uso, in collaborazione con le singole associazioni di lavoratori che ne assicurano la produzione.

Fluido ed onnipresente, ciò che si dice "credito" sta in mille forme, nella nostra società tra i due estremi della proprietà personale e delle gestioni pubbliche. Ed anch'esso si mostra all'esame obbiettivo come un meccanismo di cose d'uso comune ed indifferenziato.

Il denaro è il più agevole mezzo che si sia riuscito a costruire finora per la tecnica dello scambio dei prodotti del lavoro quotidiano di tutti. Il baratto diretto in basso e lo scambio pianificato in alto si son dimostrati ambedue utopistici, inadeguati alla complessità dei movimenti di scambio, che spontaneamente si vanno determinando via via per l'interagire dei bisogni di tutti. Tali rapporti vengono regolati in modi assai semplici e precisi, senza necessità di grandi burocrazie, proprio per l'uso di questa macchina ausiliare che è il denaro, ed in senso più largo il credito.

Guai però a dimenticare che il credito è servo dell'uomo, a considerare il denaro sul cosiddetto puro piano economico. Il denaro diviene in tal modo, come di fatto è nella nostra società, il più grande nemico della libertà comune. Viene allora usato come una macchina a sé stante, estranea alla umanità delle moltitudini. Il profitto diviene il motore. Pochi s'arbitrano di maneggiare "per sé" il denaro ed il credito, avidi di accumulare ricchezze.

Volontà in fondo animali. Il possessore di denaro accumulato scatena, prima di tutto nel suo spirito e poi nei rapporti con il prossimo, i demoni del Potere e dell'Autorità. Il ricco diventa schiavo della sua ricchezza, ed ai suoi ordini s'adopra poi per violare anche la libertà altrui, interponendosi sulle innumeri vie per cui tutti han bisogno di denaro. Ed anche qui il criterio discriminante tra l'uso libertario e l'uso antilibertario del denaro si ritrova nell'uso. Sempre che il controllo è nelle stesse mani dell'uso, tutto va bene. Se il controllo e l'uso sono in mani separate, il denaro avvelena.

La via del risparmio diretto - ciascuno spenda solo ciò che può risparmiare - limita in modo inaccettabile le nostre possibilità di azione. Soltanto il credito, che è la capitalizzazione anticipata dei risultati che ci sentiamo capaci di produrre nel futuro, consente di lavorare con tutta la intensità e la velocità possibili. Ma appaiono due piani di credito, apparentemente analoghi, negli effetti antagonisti. Nella Nuova Zelanda, ad esempio, il miracolo d'una società di pastori ad alto tenore di vita è stato possibile sopratutto per il sistema di prestiti pubblici ai cittadini, disponibili per tutti, senza profitto per nessuno. Tra noi, invece, la preminenza della Banca sui lavoratori e sui tecnici ha deformate e rovinate infinite imprese, portandole potenzialmente sotto il dominio del banchiere, incompetente. Ed in America ha un senso profondo che Ford abbia voluto costruire la sua enorme macchina industriale senza ricorrere a crediti bancari.

Anche il credito, raccolta dei risparmi e dei profitti, e loro ridistribuzione a chi lavora - necessario finché un diverso costume non si sia determinato che elimini l'uso del denaro - costituisce quindi un servizio pubblico. Ed è una ovvia esigenza di libertà che esso resti sicuramente aperto all'uso di tutti in condizioni pari, senza di che non si realizza l'equità sociale. Volontà già in atto, pur tra l'opposizione degli interessi sordi e ciechi, dappertutto dove si tende in vario modo a realizzare una Banca nazionale. Ma nemmeno la Banca nazionale è sufficiente. L'intero campo del credito dev'essere maneggiato direttamente dalle comunità interessate. E v'è, ad appoggiare questa necessità ed a dimostrarla non fittizia, una ragione tecnica: il controllo individuale dei grandi movimenti finanziari conseguenti alle forme sempre più collettive del lavoro sociale si è dimostrato incapace di evitare le crisi e di dominarle. Si son avuti troppi interventi pubblici, discontinui e senz'anima, in luogo del permanente e molteplice totale, pubblico controllo, che farà del credito un servizio a disposizione di tutti. E questa è la strada.

Noi siamo persuasi che le generazioni avvenire costruiranno qualche modo per evitare la necessità tecnica del denaro. Ma oggi l'avvio a tale mondo nuovo sta nella gestione pubblica esclusiva del deposito e del credito, che uccide il nemico tentacolare delle mille volontà individuali di conservazione e di arricchimento, e così libera verso l'avvenire la strada su cui stiamo ora incamminandoci.

"Socializzazione" ha quindi un primo senso ben determinato, e praticamente già accettato al punto di poter facilmente attuarsi in un costume:
- gestione pubblica di tutti i servizi sociali;
- gestione pubblica di tutte le sorgenti di energia;
- gestione pubblica di tutti gli Istituti di deposito e di credito.


Gestione pubblica

Gestione pubblica: concetto assai maldefinito, che rimane tuttora nella nebulosa zona del mito, nonostante le esperienze naziste e fasciste, nonostante le esperienze staliniste e laburiste. Troppi ancora pensano - illudendosi che la loro catena logica di idee rappresenti la verità, mentre con la viva vita umana non ha quasi legame alcuno - che "gestione pubblica" significhi necessariamente gestione di Stato. Troppi ancora pensano che "gestione socializzata" debba in pratica tradursi nel pianificare da un centro.

L'opera dei vari Governi succedutisi in Italia prima del fascismo ha abituato troppi italiani ad associare con l'idea di "pubblico" l'idea di qualcosa che conveniva o che bisognava lasciare alle decisioni di Crispi, Giolitti, Turati, Sturzo, ed alla esecuzione della burocrazia di Stato, perché era funzione dello Stato assicurare a tutti una quota conveniente di benefici gratuiti dispensati da Roma. Un'altra generazione, gli uomini e donne giovani su cui dovrà poggiare la ricostruzione del nostro avvenire, ha vissuto con gli occhi chiusi, senza più alcuna libera attività, in perpetua aspettativa di una razione di idee e di ordini da Roma. Così si spiega che oggi a quasi tutti gli italiani pare che il primo passo indispensabile per la soluzione d'ogni problema sia l'intervento del Governo. Così s'intende perché le sole vie di socializzazione conclamate oggi siano quelle della gestione di Stato.

Bisogna quindi ripetere ripetere e ripetere che lo Stato è sempre stato e sempre rimane il nemico n.1 della libertà di ciascun cittadino: e quindi non può costruire nulla di vitale verso l'avvenire. È ormai un'esperienza storica pienamente determinata: sia che si guardi all'America, l'immane costruzione sociale in cui il capitalismo sta esaurendo la sua vitalità ma che comunque è un mondo nuovo sorto dal nulla ad opera di libere attività espressamente nemiche di ogni intervento di Stato - sia che si guardi alla Russia, l'altra immane costruzione sociale a cui l'intervento permanente dello Stato ha finora impedito di avere un'anima, di creare altro che cose. La critica anarchica all'invadenza dello Stato viene oggi a coincidere con i suggerimenti del senso comune. Lo Stato non è un quid che esiste di per sé, sopra gli uomini e le loro competizioni: è anzi uno strumento potente di azione in mano a gruppi determinati, i quali - come prova l'esperienza russa - fatalmente si vengono via via organizzando in casta di padroni. I governanti sono soggetti alle lusinghe tossiche del prepotere politico se all'azione dello Stato non si assegnano limiti stretti e certi. Ma l'assegnare questi limiti ed il farli rispettare è impresa più da dei che da uomini, e degli dei è finita da tempo la specie, come si constata in America. Nel nostro paese, per giunta, i soli concorrenti per la funzione di governante son oggi gente deteriore, o vecchi o bacati o privi d'ogni preparazione al lavoro. Come può dunque ragionevolmente indirizzarsi sul binario dello Stato la socializzazione, la quale esprime anzitutto uno sforzo verso maggiore libertà e - in sede esecutiva - verso maggiore efficienza?

La socializzazione non ha con lo Stato nessuna relazione necessaria. "Gestione pubblica" significa soltanto gestione regolata, nelle sue varie sedi e nei suoi diversi momenti, dall'insieme stesso degli uomini e donne a cui deve servire, ivi inclusi quanti nell'impresa danno il loro lavoro. Essa costituisce quindi, innanzitutto, un compito ovvio per le libere associazioni, poi per libere amministrazioni pubbliche locali, per Sindacati e Comuni che sorgano e vivano in libertà.

Gli ospedali e le scuole possono essere bene amministrati o da associazioni di fabbrica, di quartiere, di città o dal Comune. I servizi automobilistici a complemento delle ferrovie sono definibili con più equilibrio in sedi regionali, pur senza escludere esercizi più limitati o più ampi, controllati nel Comune o nella Nazione. Le Banche possono e debbono ripartirsi in campi di lavoro indipendenti nelle sedi comunali, regionali e nazionali, ed ovviamente anche in un campo internazionale e come si possa. Associazioni libere potranno sempre tentare in proprio sfruttamenti di nuove forme di energia, mentre amministrazioni pubbliche d'ogni dimensione gestiranno le sorgenti d'energia in atto. E la competizione tra i gruppi privati delle libere associazioni e gli istituti paralleli d'impianto pubblico, e tra l'uno e l'altro di questi stessi istituti, deve essere assicurata e mantenuta con vigile cura, facendo che ciascuno resti autonomo nella sua sfera d'azione. Così si assicura alla vita sociale il fermento libertario delle iniziative molteplici e contrastanti, il test continuo di esperienze diverse, le mutazioni necessarie secondo l'eterno metodo della prova e dell'errore, i risultati migliori possibili dell'insieme. Tutto ciò che nessuna gestione di Stato può dare, perché sopprime come motore le volontà dei pochi in aspra concorrenza tra loro - che han vitalizzato le enormi costruzioni storiche del capitalismo - senza surrogarvi altre forme più umane di competizione, nella illusione che un uomo od un gruppo di uomini possano definire vie d'azione valide per tutti.

Errore che sorge per una parte dalle basse passioni di cui si alimenta la volontà del dominio politico e per l'altra dalla deteriore qualità media dei politici. Giornalisti od avvocati in gran parte od ex operai od ex contadini, son quasi tutti gente che non hanno saputo dar prova di sé nel campo duro del lavoro produttivo, e portano nella lotta politica la superficialità delle idee libresche, e con queste s'illudono (quando s'illudono!) di poter far meglio delle passate generazioni di industriali e di lavoratori, che han costruito il presente con secoli ormai di lavoro continuo, irto d'ostacoli e di rischi, sotto il pungolo costante del mercato.

L'espressione limite di tali politici è stato Hitler, col suo Istituto di Geopolitica. Ma se ne ritrovano le caratteristiche anche in uomini come Mussolini, come Stalin, come Laski [2]. E son sopratutto essi che hanno fatto sorgere entro il mito della socializzazione il mito del pianificare, irreggimentando legioni di tecnici ingenui ben felici d'intravvedere un Potere con cui imporre i loro concetti. Ma non va taciuto, per il suo senso profondo, che essi si ritrovano su questo piano insieme ad uomini come Roosevelt.

Pianificare significa infatti realizzare per mezzo di una gestione di Stato - cioè in sostanza mediante un sistema di imposizioni assistite da un sistema di pene - le visioni intellettuali d'una élite combinata di politici e di tecnici, la quale crede di aver definite per i singoli problemi sociali delle soluzioni uniche e nel loro momento anche perfette. In vari modi, con assolutezza maggiore o minore secondo la capacità di resistenza del popolo, questo è ciò che Hitler ha tentato, che ancor oggi si tenta in Russia ed in Inghilterra, che persiste tra vive opposizioni in America. Cioè, nel pianificare di Stato sfociano oggi tutti i movimenti socialisti autoritari, e con essi s'incontrano i degeneri capitalisti che vedono il loro sistema incapace di risolvere la crisi in atto ma non sanno rinunziare al loro potere e ne cercano attraverso gli interventi di Stato la conservazione. Conclusione paradossale, che dopo un secolo di agitazioni consacra il fallimento del marxismo, il quale non ha saputo opporre al capitalismo nulla di più efficace e più vitale. Ma anche conclusione paradossale che già in sé stessa dimostra l'errore radicale della pianificazione.

Nessun uomo singolo, nessuna donna singola, nessun singolo gruppo, può mai integrare entro i ristretti confini del proprio pensiero, nutrito della sua limitata esperienza, le infinite e contrastanti volontà di tutti su un determinato problema sociale. Perché quel problema trovi nella dinamica della vita sociale la sua soluzione è indispensabile il permanere di volontà autonome, collidenti tra loro. È indispensabile che agiscano in libertà una moltitudine di soluzioni diverse e simultanee con le quali venga assicurato, contro le difficoltà da superare, l'apporto d'una moltitudine di esperienze e di iniziative, in luogo del preteso risolverle ad opera esclusiva del capitalista e della élite di Stato, che alla prova dei fatti s'è dimostrato impossibile.

La socializzazione diventa nemica del suo scopo radicale, cioè diventa antisociale, antilibertaria e via di lavoro inefficiente, se non riesce a mantenere viva la competizione. Verità ormai provata dall'esperienza. Abbiamo ben visto con il corporativismo a che inerzia totale conduca la stupida pretesa di una élite che vuole (e crede di potere) pensare per il bene di tutti, e che ha il potere di dar ordini a tutti per l'esecuzione dei suoi piani. Dalla Russia lontana, dall'America lontana, attraverso le notizie frammentarie che ne abbiamo, cominciano ad apparire i risultati negativi di altre esperienze, diverse ma parallele.

D'altra parte, è ormai evidente che v'è qualche errore essenziale nella competizione che regola la gestione capitalistica delle imprese, nelle quali il controllo è riservato ad uno od a pochi e tutti gli altri partecipanti all'impresa sono relegati in una funzione praticamente servile: sistema che si è dimostrato incapace di prevenire l'insorgere di grandi crisi sociali, e si dimostra ora incapace di superarle.

Sappiamo che tutti debbono potere partecipare alla gestione. Sappiamo che ciascuno e ciascun gruppo devono pensare per sé i problemi che li riguardano, e nessuno deve poter imporre che essi agiscano per soluzioni non sorte dalla loro stessa volontà. Le soluzioni di ciascuno devono potere collidere con le altrui: cioè deve poter affrontare l'esperimento il maggior numero di soluzioni possibili, ed anche tra loro contrastanti. Dalla loro integrazione di fatto, nel fluire della vita sociale, sorgerà per ogni problema la soluzione o le soluzioni più efficaci: e verranno surrogate da altre migliori via via che diventi necessario e possibile.

L'optimum si realizza così, solo così, con la partecipazione di tutti, e per trasformazioni e competizioni incessanti. Ed il mantenere questa corrente di mutamenti e di contrasti è tra i compiti essenziali di ogni gestione di cose che voglia costruire per l'avvenire: cioè più d'ogni altra per ogni gestione pubblica. Niente quindi interventi di Stato, né pianificazioni centrali. Invece, una moltitudine di gestioni pubbliche limitate ed autonome, aderenti ciascuna ad una comunità determinata, la quale prepara piani di lavoro per sé, ed in base ad essi compete in libertà con le altre.

La funzione radicale della gestione pubblica, se essa deve superare il regno della stupidità e dell'orrore in cui ci troviamo precipitati, è quella di eliminare dalla vita sociale il motore del profitto esclusivamente personale e del predominio personale. Si deve sostituire ad esso la gara per il servizio migliore, più aderente ai bisogni sociali cui è chiamato a rispondere, più efficiente rispetto ai suoi utenti ed ai suoi lavoratori. A questo risultato non si può giungere in un attimo, né per un atto d'imperio, né con prediche. Occorre tempo, pazienza, sudore. e sopratutto occorre volontà. La via maestra è quindi: promuovere localmente in mille forme il massimo di iniziative, il massimo di associazioni. Libere: cioè diverse ed autonome. Questo ha un senso ben più vasto delle "gestioni pubbliche" che si sono esaminate, le quali contornano soltanto il campo del lavoro produttivo, tendono a dare alla vita di tutti la base libertaria delle uguali opportunità, ma senza intervenirvi direttamente. Quali vie di azione pratica si presentano dunque, oltre le gestioni pubbliche?


Gestione collettiva

Le tre direzioni delle socializzazioni prossime, conducenti a gestioni pubbliche, e per le quali è già diffuso il consenso contornano soltanto il campo del lavoro produttivo. Tendono a dare al lavoro di tutti la base libertaria delle uguali opportunità, ma senza intervenirvi direttamente. Quando da esse si passa direttamente a considerare la produzione e la distribuzione delle tante cose che rispondono alle particolari necessità di ciascuno, allora le idee di socializzazione sono assai meno determinate ed i consensi meno generali.

In questo campo la sola spinta poderosa è ancora il mito: ma esso non può tradursi in coerenti volontà pratiche. Anche le resistenze al mito sono incoerenti: interessi minacciati, volontà di conservazione sociale, timori di creare burocrazie oppressive ed incoerenti. E la discussione è viziata dai troppi che vi dissertano senza avere alcuna esperienza propria del lavoro produttivo.

Giornalisti superficiali che figurano d'essere enciclopedici, avvocati specialisti nell'organizzare macchine di carta asfissiate ed asfissianti, politicanti di mestiere, ignoranti d'ogni specie: tutti giostrano a loro agio in questo vacuo. Hic sunt leones dicono od immaginano: e gonfiano il petto. Ma il vacuo è invece popolato di uomini e donne vivi, noi gente comune. E solo noi gente comune, che nel lavoro produttivo abbiamo la nostra passione dominante e la nostra principale attività quotidiana, possiamo far scendere le idee dal piano del mito al piano della realtà.

Nel nostro pensiero confluiscono, per ciascuno di noi a modo suo, le esperienze molteplici di tant'anni di officina, di ufficio, di fattoria, di negozio, di scuola. E per vie diverse, che sono spesso vie contrastanti, noi arriviamo a conclusioni parallele, pensando con amore "la nostra officina" o "la nostra nave" o "la nostra scuola" e così via. Ed in questo concetto così semplice, e nel fatto che sia un concetto comune a tutti i lavoratori, è espressa la verità attiva che ci commuove e ci sospinge, è implicita la volontà umana che trascende e domina il meccanismo da cui siamo oggi asserviti.

Pare a taluni che quel "nostro" esprima una volontà di proprietà. Ed è vero solo in questo senso: che esprime il bisogno di controllare "noi" le cose "nostre". Ha quindi un contenuto nettamente socialistico: non ha alcun riferimento alle idee di proprietà personale. È ormai una nozione entrata nel senso comune che io non possa costituirmi una proprietà esclusivamente mia delle cose che uso insieme ad altri, se non sono disposto a costruire per gli altri una intollerabile iniquità.

I modi di vita "capitalisti", facendo perno sulla competizione economica libera di ogni norma morale, hanno condotto alla paradossale situazione presente: è ammesso che io mi armi della mia intelligenza, della mia furberia, della mia capacità di lavoro per giovarmene contro i miei compagni, per obbligarli a subire il mio predominio nella gestione del comune lavoro, fino a lasciare al mio arbitrio la ripartizione dei profitti. Questo, che si dice "agire da gangster" quando si fa con la punta di una pistola, pare ancora tollerabile quando attore è l'aspirante padrone di impresa, o il padrone di impresa.

Ma la identità fondamentale tra il gangster ed il capitalista sul piano morale sta diventando ovvia per molti, s'avvia a diventare ovvia per tutti. Anche in qualche "padrone" l'animus del profitto viene surrogandosi con l'animus della funzione sociale. E molti tra noi "servi" sentono sorgere nel profondo la ribellione contro la loro servitù. La contraddizione tra le due forme mentali, del profitto e del servizio, cerca di risolversi in una conciliazione: come in Ford, come nei grandi burocrati russi. Ma su quella strada non si profila nessuna costruzione vitale. La contraddizione si supererà soltanto nella rivoluzione, che ne cancella ambedue i termini: affermando alfine l'uomo nel lavoratore, preminente sia rispetto al profitto che rispetto al servizio. E la rivoluzione è già in atto, come fermento, nella cosiddetta "crisi del capitalismo".

È proprio in questo moto che l'idea della proprietà personale diventa evanescente nel campo del lavoro con la affermazione di libertà per cui il "il mio" diventa il "nostro", ed entro il "nostro" nessuno più comanda, e tutti collaborano. L’uomo, la donna comuni, cominciano ad ergersi contro la pratica che attribuisce ad altri che a loro stessi il controllo della gestione delle cose che essi usano insieme. E la volontà che dice "nostro" è ugualmente diversa da quella dell'uso personale come da quella dell'uso pubblico. È un attributo non d'un singolo, non d'una intera comunità, ma di determinate associazioni di lavoro. Dice, entro ciascuna fabbrica o fattoria o scuola o negozio: non siano i padroni né il capitalista né il trust né la burocrazia, né lo Stato né i Comune né il Sindacato. I padroni siamo noi, noi che direttamente lavoriamo in questa nostra particolare fabbrica o fattoria o scuola o negozio. Chiunque comandi o intenda comandare suscita la nostra resistenza.

La fabbrica in senso generale, creatura della tecnica moderna, investe con i suoi metodi ogni forma di lavoro umano. È in certo senso "fabbrica" non solo la officina industriale, ma anche la fattoria agricola, ma anche la scuola, ma anche il negozio: verità che ha tutta la sua evidenza nel paese che è all'avanguardia del mondo nelle forme del lavoro associato, in America. E la fabbrica in quel senso generale, creatura della scienza e della tecnica, è alfine promossa a nucleo autonomo della vita sociale, dopo la famiglia, prima del Comune: a sé stante.

La fabbrica. È assurdo pensare d'isolare nel corpo generale del lavoro collettivo - che è un tutto continuo di elementi autonomi, in cui anche il minimo elemento è indispensabile - o le cosiddette "industrie chiavi", o le "industrie monopolistiche" od altre. Sono tutte categorie illusorie, puramente intellettuali di gente che non ha mai partecipato di persona alla produzione ed alla distribuzione dei prodotti. Ciò che esiste è la fabbrica (cioè l’officina, la fattoria, la scuola, il negozio, ecc.) in tutte le dimensioni possibili, in tutte le forme possibili, così come sorge dalle iniziative indipendenti di ciascun gruppo. Nel loro insieme, dal fabbricone con diecimila lavoratori fino al negozietto con tre commessi, costituiscono la macchina produttiva che gli uomini e le donne hanno costruita nel secolo e mezzo di lavoro che gli economisti classificano "capitalista", per la via maestra della prova e dell'errore. E ciascuno dei suoi elementi è una vivente associazione d'uomini e di donne al lavoro, proietta sul piano sociale la libertà essenziale di ciascuno dei suoi partecipanti ed è quindi essenzialmente libera cioè autonoma. Ogni officina, ogni fattoria, ogni scuola, ogni negozio è un nucleo organico che sta di per sé, che può e deve stare di per sé.

Il caso generale della fabbrica si conferma quindi ben distinto da quello del servizio sociale: e non valgono per essa gli stessi criteri di socializzazione che conducono a pensare le gestioni pubbliche.

Se si pensa la macchina della produzione e distribuzione di beni sul suo proprio terreno funzionale, cioè sul terreno economico, bisogna aver coraggio di riconoscere che allo stato attuale essa è congrua con noi stessi, è il meglio possibile in rapporto a ciò che noi siamo. Vi sono in essa molti difetti: come molti difetti agiscono in noi stessi. Essi si sommano in pochi risultati generali, veramente paradossali: 1) La cancellazione di ogni scopo e di ogni limite umani allo sviluppo del meccanismo, perseguito di per sé come oggetto di pura ricerca scientifica, così pura da diventare inumana: il che ha condotto da una parte alla fabbrica a catena e dall'altra alla bomba atomica. 2) L'altissima efficienza tecnica delle fabbriche a catena, realizzata rendendo bassissima la loro efficienza umana, facendo gli uomini quasi pure appendici delle macchine, uccidendo la gioia del lavoro. 3) Lo sfasamento persistente tra il lavoro e i bisogni: per cui mentre manca alla vita quotidiana anche l'essenziale, moltitudini sono condannate all'ozio invece di lavorare e produrre; e per contro la maggiore produttività del lavoro meccanizzato viene usata spesso ad accumulare produzioni economiche rispondenti a bisogni ancora fittizi, che bisogna stimolare con la pubblicità, anziché servire a diminuire le ore giornaliere di lavoro sociale per tutti, che tutti abbiano tempo per godere personalmente la loro vita anche all'infuori del lavoro. È l'insieme di questi difetti che costituisce l'instabilità economica del nostro mondo.

Sarebbe semplicista, ed inefficace, considerare quei difetti sul solo piano economico: allo stesso modo che non varrebbe a nulla pensare di agire su di sé stessi sul solo piano morale. In essi tutti gli aspetti della vita umana, che è cosmica, confluiscono: e per modificarli occorre azione su tutti i piani pensabili. Ma è un fatto che il problema cardinale del nostro tempo è proprio l'adattare il ritmo del lavoro al ritmo dei bisogni, nelle forme sempre più complesse e più veloci della nostra vita sociale, che poggia sulla macchina come suo trampolino verso l'avvenire. E per questo non giova fermarci a considerare particolari errori, di natura economica o tecnica. Quest'ordine di difetti si elimina soltanto con l'esperienza, con l'opera lenta delle generazioni susseguentesi, col tempo e col sudore. I progetti di riforma pensati a tavolino dai pianificatori sono tutti illusori. Le supposte "soluzioni" di tipo tedesco o russo, poggiate sulla sapienza universale d'una casta di burocrati, han già dato prova della loro inumanità: e la stessa prova stanno dando le più complesse soluzioni proposte in America o in Inghilterra, con la speranza di poter conciliare la pianificazione centrale con la libera iniziativa locale. Il loro comune fallimento deriva dall'aver immaginato che l'ostacolo fosse di natura meccanica, mentre è di natura umana.

I pochi che sono "proprietari", cioè che hanno l'esclusivo controllo della gestione delle fabbriche, non han saputo raggiungere un funzionamento equilibrato del lavoro produttivo nel suo insieme. La "libera iniziativa", concepita come iniziativa libera di fatto soltanto per alcuni, s'è dimostrata incapace di rimediare gli errori a cui essa stessa ha condotto. Non v'è riuscita nemmeno con l'aiuto dello Stato, come in America. Non con l'aiuto di una tremenda macchina oppressiva e fanatizzante, come in Germania. Né hanno avuti risultati migliori i politici del Socialismo di Stato, i cui piani camminano soltanto finché li puntelli l'oppressione, come è chiaro per la Russia, come diventerà chiaro per l'Inghilterra. La verità, semplice, è che si tratta di problemi i quali soverchiano la possibilità d'uno o d'un gruppo. Per risolverli, occorre la collaborazione di tutti. E che sia, come è ovvio, collaborazione libera: cioè realizzi la "libera iniziativa di tutti". Allora, tutti i lavoratori di ciascuna azienda partecipando attivamente alla sua gestione, cioè ai suoi rischi ed alle sue conquiste, il massimo possibile di energia umana sarà messa in azione: e il massimo possibile di risultato sarà raggiunto. Allo sviluppo del macchinismo sarà posto il limite di servire gli uomini, non già di comandarli. Resterà la competizione tra le varie aziende: ma sarà eliminata la stupida e feroce lotta per il profitto con cui il capitalismo ci trattiene tutti sul piano zoologico. Nuovi indirizzi per la produzione e la distribuzione di beni sorgeranno dal libero collidere di tentativi molteplici, dalla concorrenza associata con la solidarietà, entro una rete di liberi accordi.

Questa è la strada delle "gestioni collettive": che è - posto il fondamento delle gestioni pubbliche per i servizi sociali - la strada maestra della socializzazione.

Di veramente difficile in un tale senso non v'è che il primo passo. Nulla si può fare se non si soverchiano prima di tutto le resistenze alla volontà della gestione collettiva. E la natura di tali resistenze, che sono in genere o stupide o feroci, non lascia sperare che si possano vincere con i metodi della persuasione. Né si può sperare che una lenta costruzione pacifica, per mezzo di comunità sperimentali, riesca a irradiarsi nella società da eliminare per altra via le forme presenti del lavoro servile. Non v'è nessun esempio storico di rivoluzione per consenso o di costruzione d'un ordine nuovo entro l'ordine vecchio. Bisogna avere il coraggio del primo passo, che o è rivoluzione o non è.

Posta una tale premessa, bisogna anche rinunziare alle facili teorizzazioni degli schemi intellettuali, che illudono si possa predeterminare l'ordine nuovo. La macchina della distribuzione e della produzione di beni, considerata nel suo insieme e nei suoi dettagli, sta bene così com'è quale punto di partenza. Il fatto che è così dimostra che non può, come opera nostra, essere per ora migliore: e bisogna ammetterlo senza infingimenti. Le officine, le fattorie, i negozi si dovranno, all'avvio accettare quali sono: ciascuna con la sua collettività di lavoranti, ciascuna nella posizione competitiva in cui la lascia il capitalismo. Ma ogni lavoratore dovrà poter dire, dal direttore agli apprendisti: "questa è la nostra fabbrica". Tutti quanti partecipano al lavoro di ciascuna azienda debbono immettersi nella gestione di quell'azienda.

Verrà con ciò data ai lavoratori anche la "proprietà" della fabbrica, dal momento che essi avranno nelle loro mani il controllo del suo uso. Ma si supererà in qualche modo il ristretto concetto antico della "proprietà personale", senza cadere nella inconsistenza della "proprietà di Stato". Come ciò avverrà è prematuro occuparsene ora. Le nuove forme giuridiche verranno determinate sul vivo, nel corso della esperienza. Sorgerà un nuovo Diritto. Ma di ciò non giova a nulla occuparci ora. Ora a noi basta vedere che affidando la gestione di ciascuna azienda di lavoro, lasciata pienamente autonoma, alla sua comunità di lavoratori, noi cancelleremo di fatto l'assurda situazione presente per cui i molti sono obbligati dai pochi a restare servi e quindi passivi e quindi non collaboranti a risolvere le difficoltà della vita sociale. Tutti potranno alfine attivarsi per la costruzione d'un migliore ordine sociale, ed esso sorgerà dal caos della rivoluzione, senza miracoli del pensiero e dall'opera di tutti.

Ognuno di noi, in libertà, contribuirà a quest'opera con le sue idee, le sue passioni, le sue volontà, la sua fatica. È inutile illudersi di poter prevedere l'ordine nuovo, e sciocco pretendere di poterne prelimitare gli sviluppi. Sarà come sarà. Noi agiremo, anzitutto agiremo, perché il veleno dell'autorità non s'insinui all'origine stessa dell'ordine nuovo, con la sapienza dei teorizzatori, i quali non hanno coraggio di lasciare che gli uomini e le donne imparino a vivere in libertà cominciando col vivere in libertà. Difenderemo, anche con la violenza se sarà necessario, questa libertà nostra e di tutti. Senza dissimularci ora che ciò significherà lasciare che ciascuna comunità di fabbrica decida da sé i propri problemi, che ciascuna affronti da sé i propri rischi, che gli orientamenti generali sorgano solo quando le varie comunità autonome ne avvertono il bisogno.

Gestione collettiva significa quindi - ed è bene insistervi, per chiarire bene la sua radicale differenza dalla gestione pubblica - una moltitudine di gestioni collettive autonome, competitive. Solo così noi riusciremo a raccogliere dal capitalismo quanto v'è di vitale nella sua opera secolare, per indirizzarlo utilmente verso la costruzione dell'avvenire.


Lavoro cooperativo

La volontà delle gestioni pubbliche e delle gestioni collettive conducono entrambe alla organizzazione del lavoro in forme che, per attuare senza limitarla la potenza creatrice della innovazione, siano veramente cooperative.

Problema che ha mille visi, ma rimane ugualmente concreto ed elementare. La sua soluzione si deve costruire, non già studiare: nascerà dalla simultaneità di infinite esperienze diverse, non già dall'applicazione d'un qualche piano razionale. Siamo noi, l'uomo e la donna comuni, che possiamo veramente riuscirvi, non già gli economisti, i politici, i giuristi che sulle loro illuminazioni parziali del problema han costruito tanti castelli di parole. Perché - idea ricorrente, che s'affaccia da ogni lato - il problema non è di meccanismi: è di uomini e quindi di libertà.

In sostanza si tratta di passare il controllo di aziende di lavoro determinate, ciascuna a sé stante, a comunità di lavoratori pure determinate e ciascuna a sé stante. Non v'è per ciò bisogno di alcun aiuto divino, né di nessuna trasformazione degli uomini, né di nessuna speciale burocrazia. Anzi, ogni intervento esterno annullerà alla radice le possibilità costruttive degli uomini interessati.

Già ora i lavoratori nel loro insieme - che include tutti, dal direttore agli apprendisti - sono di fatto la sola sostanza viva di ogni azienda. Dirigere non è più una funzione esclusiva del proprietario: tanto che tra i dirigenti non proprietari è perfino maturata, ed è stata espressa da Burnham [3], l'illusione di una ipotetica loro conquista del Potere sociale. Ma nemmeno i cosiddetti dirigenti hanno il monopolio totale della dirigenza: già ora qualunque capo squadra dirige nel suo settore, e spesso anche semplici operai contribuiscono alla dirigenza, idee e metodi, specialmente dove qualche capitalista intelligente - del tipo di Lincoln in America - ne fornisce loro l'opportunità. È ovvio per chiunque abbia esperienza di fabbrica che basta fare il passo dell'uscio, eliminare l'arbitrio del proprietario, e far sì che i lavoratori tutti si sentano affidati non al Governo o al Sindacato o ad altro qualsiasi ente superiore ma interamente ed esclusivamente affidati a sé stessi, per vedere davvero nascere un altro mondo.

Sono decisive in questo senso alcune esperienze italiane della occupazione di officine nel lontano 1920: alla Fiat di Torino, alla Galileo di Firenze, raggiunta una effettiva collaborazione tra le varie categorie di lavoratori, la quantità e la qualità della produzione è migliorata, nonostante l'assenza dei proprietari. Ed esperienze dello stesso senso sono ritrovabili, su un piano più ampio, in varie regioni industriali ed agricole della Spagna durante il tentativo rivoluzionario del 1936-37. Ogni azienda resta in apparenza così come essa è. Se il proprietario vi esercita un utile ufficio, può anche continuare a lavorarvi. Però, ed è questo che importa, egli non potrà più comandare, far agire gli altri a suo arbitrio. Dovrà anch'egli lavorare secondo le decisioni collettive. Dovrà accettare, seppur dirige, la collaborazione di tutti. E per questa nuova strada, della collaborazione di tutti, si verranno risistemando liberamente per via i rapporti interni della fabbrica, troverà una nuova definizione il compito del direttore, si creeranno gli organi in cui la partecipazione di tutti alla gestione diventerà effettiva, verranno definiti i modi in cui prendere accordi tra fabbriche diverse senza che nessuna di esse si ponga in posizione subordinata e senza che fuori delle fabbriche si creino Poteri superiori che ricomincino a comandare e quindi avviino la ricostruzione del vecchio mondo. Tutto ciò avverrà, in qualche forma, nel futuro. Non v'è ragione di dubitarne. Chi mette in dubbio la capacità dei lavoratori a ordinare il proprio lavoro non ha evidentemente alcuna esperienza in materia, oppure ha interessi o pregiudizi che gli vietano di valutarla giustamente.
Riusciremo, in modi che definiremo, ad avviare e sviluppare il lavoro cooperativo.

Intanto, dobbiamo prepararci a quei compiti, noi che ci sentiamo la pattuglia di punta della battaglia, e sappiamo che non basterà distruggere, che occorrerà parallelamente ricostruire.

Essenziale è che noi teniamo sempre presente che la sede attuale delle vere volontà rivoluzionarie, e tutte le possibilità di attuazione in quel senso, sono nell'uomo e nella donna comuni, e non "in massa" ma considerati ciascuno a sé. Bisogna avere radicalmente fiducia nell'azione simultanea di indirizzi diversi, non temere nulla di male dal fatto che l'insieme iniziale appaia contraddittorio. Per via si realizza l'integrazione spontanea degli sforzi divergenti, i quali finiscono per concorrere - retando apparentemente divergenti - lungo una direttrice comune di attività sociale.

Su queste fondamenta, è ovviamente impossibile assegnarci ora un "piano" di azione interamente determinato. Ma possiamo però ben darci degli orientamenti. Bisogna sviluppare tra i lavoratori di ciascuna fabbrica il senso della socialità, insieme al senso della propria personale partecipazione in essa. Quindi inserirsi nei meccanismi interni della fabbrica - che tendono ad essere governati da qualche strato di burocrazia o politica o sindacale - per mantenerli al massimo svincolati, autonomi. Commissioni Interne in cui tutti i lavoratori abbiano dei loro diretti rappresentanti: tutti, dai dirigenti agli apprendisti, allenantivisi al combattere quotidiano con le piccole difficoltà. Consigli di Fabbrica, in cui i migliori tra i lavoratori delle diverse professioni affrontino i problemi più ampi della gestione, esercitandosi all'analisi dei vari elementi che concorrono a renderla efficiente o inefficiente. Due organi che dovrebbero promuoversi in ogni collettività al lavoro, e che ignorano ogni divisione tra lavoratori, che accettano sullo stesso piano l'uomo e la donna, il socialista ed il cattolico, il bianco ed il nero, il direttore e il manovale, chiunque sia "lavoratore", e potenzialmente li indirizzano alla libertà, preparandoli a volere la libertà. Il successo della loro azione non è vincolato all'assistenza dei Partiti determinati, e tanto meno all'azione dello Stato. A differenza dei Sindacati, in cui spesso è difficile - e più che mai ora - evitare che la lotta degeneri in collaborazione col nemico, in queste sedi elementari che sono la Commissione Interna ed il Consiglio di Fabbrica non occorrono né programmi né altre sterili ampiezze verbali della stessa specie. In esse si realizza l'azione, l'azione libera, l'azione spontanea, l'azione che crea. E nell'azione e dall'azione verrà determinandosi via via la volontà "che la fabbrica sia nostra", e via via si compiranno i piccoli passi preliminari verso tale meta. Cominciando a camminare si imparerà a camminare. Si realizzerà a l'acuirsi della volontà in un nucleo sufficiente, insieme all'associazione di tutti attorno a quel nucleo: cioè nasceranno Sindacati, liberi ed autonomi anch'essi, magari sulla distruzione degli pseudo Sindacati attuali. La lotta si svilupperà.

Il resto si costruirà per strada. Avremo anni duri, ma riusciremo. Il nostro è uno sforzo di maggiore libertà, ed è quindi nell'ordine delle cose. Come il sasso cade in basso, così la Commissione Interna, il Consiglio di Fabbrica, il Sindacato sfoceranno - quando venga il nostro tempo - nella cooperativa integrale che assumerà la gestione della fabbrica, nucleo della nuova vita sociale.

È naturale infatti che quando un lavoro richiede l'opera di molti collegati in un organismo produttivo, e mezzi quindi che trascendono il campo delle loro proprietà personali, essi si associno in gruppi, cioè in co-operative. Contro natura appare invece che uno o pochi pretendano di decidere per tutti, ed è giusto che ciò conduca all'impoverimento, alla devirilizzazione che vediamo in atto, sia dove chi impera è l'agghiacciante personalità di Ford, sublime ma inumano, sia dove si sommano tragicamente gli errori dei pianificatori russi anch'essi grandi ed inumani, sia nel nostro stesso paese sommerso nel caos dall'azione degenerante del corporativismo.

Il fondamento vivente di tutte le aziende private, industriali, agricole, commerciali, e delle aziende pubbliche che ne costituiranno la cornice, sarà necessariamente domani, in qualche forma, con qualche nome, una rete di Cooperative di produzione. Sussisterà sempre il libero artigianato, in cui si esprimono le insopprimibili forme individuali del lavoro. Ma a lato dell'artigianato, gruppi non numerosi di operai e di tecnici si uniranno per compiere lavori determinati, in Cooperative di produzione. E il sommarsi di questi gruppi, ciascuno dedito al suo lavoro, per compiti che richiedano la loro opera simultanea, si realizzerà in Cooperativa di Gestione, associazione di Cooperative di produzione. Non falansterio. Nemmeno diversi falansteri simultanei. Una molteplicità di iniziative diverse, liberamente operanti in amichevole competizione in tutti i sensi. Tutti i lavoratori "presenti" nel lavoro con le loro idee e le loro volontà. E, per le imprese che costituiscono un servizio sociale, presenti con i lavoratori anche gli utenti di quel servizio. Si delinea un quadro possibile, che non è affatto un programma che non vuol essere una previsione: ed esso persuade. L'ordine nuovo così si realizzerà in tal senso.

Un insieme umano, non meccanico, con una costituzione di base capillare, funzionante per piccoli gruppi (Cooperative di produzione) di pochi uomini e donne che fanno lo stesso lavoro, che si conoscono l'un l'altro, che possono davvero operare uniti. Ed immediatamente a lato di questi gruppi - non "sopra", non come comandante, anzi come servitore, come mezzo per la loro efficienza - il cemento della associazione tra gruppi (Cooperative di gestione), che rendono possibile dove si voglia anche la grande fabbrica. Senza vincoli esterni, senza gerarchie interne, con la regola permanente della autonomia di ciascuna impresa, entro la distribuzione dei compiti liberamente stabilita da tutti. Libero ciascun uomo e donna e ciascun gruppo di fare o di non fare, libero ciascuno di associarsi e di separarsi, ma ciascuno pienamente responsabile delle conseguenze dei suoi atti, i quali finiscono sempre per reagire su di lui. Quindi, senza alcuna possibile funzione per una "burocrazia superiore", senza nessuna necessità di uno "Stato sovrano" che con quella burocrazia comandi dall'alto del suo empireo. Restando operanti in ciascun uomo e donna, e quindi in tutti, il piacere del successo, la pena dell'errore, la ricchezza costruttiva della libera esperienza.

È ovvio che non valgono per questo lavoro d'uomini liberi associati gli schemi delle antiche "cooperative". Difatti esse son sempre fallite ogni volta che si proponevano di realizzare, entro la cornice sociale presente, forme libertarie di lavoro. E quando hanno avuto successo, ciò significava sempre che si erano adattate a diventare equivalenti ad una impresa capitalistica, dando ai propri lavoratori un salario forse maggiore, ma non certo la possibilità di lavorare in libertà. Pseudo associazioni, prive d'anima e quindi prive di forza.

Che faremo dunque, quando il giorno della grande conquista alfine arrivi?

La distribuzione attuale dei lavoratori in aziende concorrenti, il programma ed i metodi di lavoro di ciascuna di esse, sono il risultato migliore a cui abbiamo potuto giungere attraverso l'attività selettiva del capitalismo, lavorando sotto la ferrea legge del minimo costo e del miglior prodotto, con la copertura permanente dello Stato, con tutti i veleni dell'autorità mantenuti in circolo attorno al nostro lavoro. Le aziende che, nel nostro paese, non hanno saputo mantenersi un minimo di indipendenza dalla burocrazia corporativa e dalle grandi banche, sono spesso incapaci di lavoro attivo. Altre invece sono ancora capaci d'una ragionevole produttività, cioè di lavorare nel quadro della competizione. Un tale insieme dovremo necessariamente accettarlo com'è. È l'eredità del capitalismo. E non v'è speranza che si possa modificarla per mezzo di libri o di decreti.

Non avremo altra via che l'assumere nelle mani - "noi" lavoratori, non noi anarchici - la gestione di ciascuna delle aziende esistenti, come punto di partenza dopo aver eliminato la presenza dei padroni e dello Stato, delle burocrazie sindacali o di qualunque altro organo che pretenda di comandare, dopo aver assicurato che non possano risorgere con altri nomi. Le aziende parassitarie si cancelleranno da sé, come incapaci di resistere al lavoro competitivo. Sopravviveranno quelle che riusciranno a modificarsi in tempo. Da esse e dalle altre, con lavoro e lavoro, ma di gente alfine libera davvero, nascerà "il meglio", con una pratica sempre più completa ed intelligente della cooperazione che è essa stessa libertà.


Il salariato

I pianificatori integrali che operano da un centro - Marx dal British Museum, Stalin dal Kremlin, gli altri tanti minori - tendono tutti a vedere la chiave della nostra società nel fatto che il capitalista preleva a suo arbitrio un profitto sui prodotti del nostro lavoro. Gli altri signori che per salvare il sistema in atto cercano di pianificare ma non troppo (è in America che si ode più spesso la domanda: “come si può conciliare l’economia pianificata con la libertà dei cittadini?”) vedono invece la chiave nel fatto del mercato. Ma il centro della mostruosa macchina sociale in cui viviamo non sta né nella concorrenza né nel plusvalore che sono momenti operativi di una causa più remota.

La “rivoluzione capitalista” che ha avuto i suoi avvii in America ed in Francia nel 1776 e nel 1789 ha impiantato una nuova relazione sociale, fondamentale, diversa tanto dalla schiavitù come dalla servitù: e con essa ha costruito il mondo in cui oggi viviamo, assistendovi al declino delle forze allora immense nel crogiolo cosmico dell’umanità. Si sono allora assicurate condizioni di sviluppo senza limiti alla iniziativa dei più feroci, anche se sono nati tra i dominatori in atto; ed al loro lato si sono eccitate le attività dei meglio dotati intellettualmente, anch’essi senza limiti - e con queste due leve una lunga serie di animali da preda ha dominato sul lavoro coatto delle moltitudini, perdendo per via ogni freno morale, l’idea stessa del fine umano del lavoro.

In tale processo erano in atto, al suo inizio, poderose spinte libertarie: non tanto per la creazione di un più diffuso benessere quanto per la rottura violenta della rigida crosta entro cui s’era venuta rinchiudendo la vita sociale. In fatto, il padrone che assicura casa e cibo allo schiavo stabilizza e perpetua la schiavitù. Ponendosi invece giuridicamente sullo stesso piano il padrone e il servo - mutati in ricco e povero - si libera il ricco da ogni dovere di assistenza verso il povero: ma anche il povero non ha più verso il ricco alcun dovere definito. La forza rispettiva regola i loro rapporti. Si determina una permanente tensione sociale, l’atmosfera di lotta e di mutazioni interessanti in cui si crea l’avvenire.

Le cosiddette “società civili” di oggi esprimono i risultati estremi di quel moto e ne denudano l’intimo errore. Esse sono tutte, in sostanza, l’organizzata prevalenza di chi chiama “forza” la capacità di operare senza scrupoli: il loro centro motore è per una parte l’animus di brigante con cui uno dice a molti: “se oggi non lavorate per me io non vi pago (e lo Stato vi afferra se tentate di prendermi qualcosa del mio e la Chiesa vi manda all’inferno)”, e per l’altra parte è l’anima del gregge con cui i molti rispondono, incuranti della loro immane potenza: “ho paura di non mangiare domani, e lavoro”.

La relazione sociale creata dalla “rivoluzione capitalistica” è quindi espressa nella sua essenza dal salariato. È il salariato che dà noi poveri con le mani legate in preda ai ricchi, ed avvelena noi nell’ubbidienza ed essi nel comando.

Di questa constatazione - ovvia per chi sia oggi tra le vittime della barbarie sociale - si ha una duplice riprova storica, immediata.

In Russia il fallimento della rivoluzione è stato accompagnato lungo la sua strada - calvario dei popoli russi - dal permanere di un sistema di salari che diventava tanto più barbaro quanto più era scientifico, e che funzionava egregiamente per costruire un inamovibile seggio al potere dei burocrati pianificanti. L’errore iniziale di Lenin che non ha osato la distruzione totale dello Stato e ne ha così assicurata la piena ricostituzione, ha avuto per corrispettivo sul piano del lavoro l’errore iniziale di non osare l’annullamento dei salari, per la creazione di un nuovo costume che realizzasse la formula rivoluzionaria: da ciascuno secondo le sue forze, a ciascuno secondo i suoi bisogni. Il superstite salariato, per una progressiva differenziazione dei guadagni, dapprima tra il lavoratore comune e l’aristocrazia degli stakanovisti. e poi tra essi e la nuova casta dei burocrati, ha lentamente ricostituiti i possidenti e i nullatenenti. I giacobini al potere non sono stati capaci di alcuna innovazione sostanziale: hanno ripristinato la piccola proprietà diretta, ed entro la proprietà di Stato han dovuto ricorrere al mezzo disperato - e disperatamente inefficiente - dei “gruppi di assalto” per dare qualche spintone al lavoro. Ritorno all’indietro. Una nuova società di classi ed una nuova oppressione sono risultate dalla applicazione cosiddetta “comunista” della tipica formula capitalistica: a ciascuno secondo le sue capacità.

In America i capitalisti più intelligenti, che cercano di salvare la competizione in atto rendendola meno animale, s’aggirano entro il sistema dei salari come una belva nella sua gabbia. Tutti i metodi possibili sono stati provati. Il salario a tempo, accompagnato da una selezione dura che scarta i meno produttivi. Le mille forme di salari a pezzo o di salari differenziali. I diversi incentive systems. Ma il lavoro diventa sempre più nemico del lavoratore, la macchina sempre più la sua padrona, col risultato che i periodi di benessere fittizio creati dai pianificatori preparano la strada ai periodi certi delle grandi depressioni. La possibilità potenziale data a tutti di diventare ricchi non basta a colmare le enormi fratture sociali in atto. Solo pochi giungono a quella ricchezza magna a cui s’accompagna il reale potere sociale, e quei pochi difendono con l’invincibile Stato il loro predominio esclusivo. Ed il risultato è anche qui un paradossale ritorno all’indietro: sui residui delle libertarie società di pionieri si costituiscono relazioni sociali di tipo feudale; il “gangster” ed il “boss” su piani paralleli, e le moltitudini magari ben nutrite, ben alloggiate, ben vestite (quando non sono il rovescio, che è meno raro di quanto s’immagini, in quel paradiso) sempre più gregge, giornali e radio aiutando.

Occorre dunque fissare bene il fatto: la rivoluzione in Russia è degenerata in reazione, e la volontà d’avvenire in America non trovano modo di farsi rivoluzionarie, essenzialmente perché la società è avvelenata alla radice dal salariato.

Occorre dedurne, senza timore, l’idea chiara che nessuna socializzazione sarà di per sé vitale se non affronterà e risolverà il problema di abolire il salariato, sostituendovi un nuovo costume ad opera di tutti, in libertà. I nuovi istituti del lavoro socializzato non sono di per sé veicoli di libertà. Già appaiono i mille pericoli, le mille insidie che sono contenuti in ciò che i Partiti - cioè i politicanti professionali - chiamano “socializzazione”. Or vi s’aggiunge, decisiva, la dimostrazione d’una via per la quale le gestioni pubbliche collettive, il lavoro cooperativo, diventano veicoli per sostituire alla oppressione in atto una nuova oppressione.

Bisogna ancora aggiungere: non v’è alcun modo di congegnare diversamente i salari per togliere ad essi il substrato che oggi vediamo in atto. Il salariato esprime una paura sciocca e profonda: “se oggi io non lavoro, domani io e la mia compagna ed i nostri figli non mangiano”. Su questa stupidità, alimentata di prediche e di convenzioni, i ricchi impiantano il loro ordine immorale: “lavora come decido io”. Questa è é la forma attuale del lavoro: come stupirsi che non riesca ad essere efficiente rispetto ai propri fini umani? I logicismi capitalistici e socialistici - libera iniziativa, che è libera solo per i pochi; libero mercato per la merce lavoro, che non esiste, perché né il lavoro è una merce né le lotte per il lavoro sono libere come competizioni di mercato; il lavoro dovere sociale, o il lavoro diritto sociale, che sono frasi prive di senso; ecc. - tentano di velare con discorsi l’immorale imperativo, fatto di violenza e di timore, che è alla baae di tutte le relazioni presenti del lavoro. E finché il salariato resta come sistema, l’immoralità resta: tutte le escogitazioni possibili entro il sistema hanno di mira il prodotto, non già l’uomo che lavora.

Una sola strada potrà svincolare il nostro lavoro quotidiano dalla paura e dalla ferocia, per animarli invece con la serenità della creazione combattuta: il lavoro senza salario.

Bisogna dare alla socializzazione un’anima. Il lavoratore deve poter amare il suo lavoro, ed è umano amare soltanto ciò a cui non ci si sente obbligati. Lavorare deve essere un atto d’elezione, non di necessità. Bisogna che tutti possano dire: “se anche oggi non lavoro, domani io, la mia compagna, i nostri figli, mangeranno ugualmente”. Idea limpida che anche conservatori radicali come Beveridge [4] intravedono senza osare di formularla in volontà rivoluzionaria. E solo una volontà rivoluzionaria può giungere ad assicurare a ciascun uomo e donna il minimo indispensabile per i bisogni elementari, a cura della comunità in cui essi vivono, indipendentemente dal considerare se lavorino bene o male, poco o molto o nulla.

Socializzare rimane un atto sterile se vi si porta lo slogan simplicista “chi non lavora non mangia”. Esso pare diretto contro i ricchi: in realtà giova ai ricchi, mantiene l’un contro l’altro i poveri. Trasferisce tra noi le stesse volontà animali del capitalismo da cui è esclusa la solidarietà: e la nostra salvezza è invece tutta nella solidarietà. Semplice e coraggioso, un nuovo slogan dovrà affermarsi in suo luogo: “il cibo è di tutti, anche di chi non lavora”. Con esso incominciamo ad intravvedere una società alfine umana, mèta degna del combattimento e del sacrificio. E lo guardiamo senza timori: perché noi sappiamo che l’uomo sano vuole lavorare, che su questa volontà elementare ed insopprimibile s’è costruito il mondo del passato, e quindi su di essa si costruirà il mondo nuovo dell’avvenire.

Ecco il nuovo mondo.

Allora la grande fabbrica ridotta a dimensioni umane soddisferà i molti portati al lavoro collettivo, rispondendo tutti a bisogni di tutti, in libertà, mentre un libero artigianato darà lieta fatica a chi voglia lavorare da solo. Vi saranno, come sempre nel passato e nel futuro, “vagabondi” che non sentono la passione dell’operare. Malati o poeti, che importa? La potenza produttiva praticamente infinita che mette a nostra disposizione il macchinismo ci consente di non preoccuparci di questi parassiti marginali, amici o nemici.

Allora davvero si realizzerà, ad opera delle generazioni succedentisi, la fusione del lavoro intellettuale con quello manuale, ciascun uomo e donna lieti di alternare nelle loro industriose giornate compiti molteplici e diversi.

Allora infine, la equa distribuzione del lavoro tra tutti e dei prodotti fra tutti, sorgerà spontanea dall’armonia di tutti al lavoro secondo la loro libera scelta, e sarà cancellata dal linguaggio la “crisi economica”, e le difficoltà e le lotte saranno trasposte sul piano della collaborazione competitiva, verso una sempre più attiva umanità.

Allora sarà ciò che oggi pare soltanto una fantasia. Ma sarà se ed in quanto quella fantasia noi sapremo coltivare non in sterili sogni ma come animatrice di volontà pratiche determinate.

Noi aneliamo a far diventare alfine concreta la Libertà, in un insieme molteplice di libertà reali e ben definite, in atto per tutti. Le gestioni pubbliche, le gestioni collettive, il lavoro cooperativo possono assicurare a tali libertà un efficace meccanismo di azione nel campo del lavoro. Ma al loro meccanismo occorre un fiat che lo vivifichi, che lo faccia umano - e quindi non più meccanismo ma proiezione mutevole delle nostre vite molteplici.

Ripetiamoci: la socializzazione ha bisogno di un’anima, per non finire anch’essa strumento dei padroni. E dev’essere la nostra stessa anima, dobbiamo noi darla, fiduciosi nel nostro prossimo per riflesso della fiducia che abbiamo in noi stessi, affermando per tutti il diritto alla sussistenza senza alcun rapporto necessario con il lavoro prestato.

Quando noi riusciremo a far sorgere da tale volontà l’avvio di un nuovo costume sociale, vigilando dopo una rivoluzione vittoriosa contro la risurrezione del salario come vigileremo contro la risurrezione dello Stato, avremo allora impiantato l’istituto radicale del mondo nuovo a cui tendiamo. Del mondo senza più autorità [5]. Del mondo degli uomini liberi, che non consentiranno più accumulazione di potere in poche mani, che in qualche modo realizzeranno gestioni pubbliche e gestioni collettive, autonome, in una rete di minime e medie e grandi cooperative: il mondo che o sarà senza salario o non sarà.

Prospettive d’azione

Il discorso è stato troppo lungo, soprattutto perché le sue idee essenziali vi rifluiscono in aspetti diversi. In compenso, la conclusione è breve.

Io vedo necessario e possibile che noi assumiamo una ben determinata posizione che sia specificamente anarchica, di fronte ai problemi della socializzazione: scendere dal limbo delle idee generali, toglierci dalla scia dei movimenti cosiddetti socialistici. Agire oggi significa, purtroppo, quasi solo discutere. Ma tornerà, si avvicina un poco ogni giorno, il tempo dell’azione. E per quel tempo noi dobbiamo prepararci in una posizione così nutrita di verità pratiche che la gente di buona fede si sente portata a lavorare insieme a noi.

I Partiti e le Chiese ingannano, ripetendo formule che tutti sentono fallite nelle prove tragiche di questo secolo, che hanno seppellito in modo definitivo Cristo e Marx [6]. Noi dobbiamo inserire sul loro fallimento la nostra affermazione. E nel campo della socializzazione, contro la indeterminatezza delle idee dei Partiti e delle Chiese, mi pare appaiano per noi alcune direttici d’azione che ci assicureranno vasti consensi.

1. Contro l’accumulazione della proprietà, che è base per il predominio di pochi - e per la diffusione di una nuova forma di proprietà non accumulabile, condizionata e limitata dall’uso diretto ed effettivo, strumento di libertà per tutti.
2. Contro le statizzazioni, le nazionalizzazioni, le burocratizzazioni cosiddette sindacali - e per l’assunzione diretta della gestione delle fabbriche da parte delle singole comunità di lavoratori, autonome e concorrenti.
3. Contro i pianificatori centrali d’ogni specie - e per il disordine creatore delle iniziative molteplici e spontanee, nel quadro della libera competizione e dei liberi accordi.
4. E soprattutto contro il salariato, come male radicale - per la assicurazione del minimo di cibo, di casa, di vesti, a tutti, senza formalità e senza condizioni, come via per il lavoro libero e lieto.

Queste direttici non costituiscono uno schema generale, non contengono un determinato piano della società futura. Determinano la nostra azione presente. Additano - a lato del grande nemico che è lo Stato - gli altri nemici, la Proprietà, il Salario, il Piano. Confermano la necessità di una rivoluzione profonda, senza la quale il mondo umano si farà sempre più stupido e più barbaro. Ma non pretendono con ciò di assicurare che all’indomani della rivoluzione tutto sarà risolto ad opera di non si sa quale mago, né che tutto prenderà la strada che oggi pare a noi la migliore. Tutto sarà da risolvere, tutto sarà da creare. Ed allora non serviranno gli schemi d’insieme preparati in anticipo: mentre serviranno gli studi di dettaglio sviluppati in anticipo. A questi studi vorrei dare l’avvio, proponendo alla mediazione - fuori delle facili formule - l’infinità di problemi connessi con la socializzazione.

Il nostro movimento, che ha dai suoi pensatori un orientamento del quale gli avvenimenti del nostro tempo gridano ogni giorno nuove conferme, ha bisogno di svincolarsi da ogni connessione ideologica con gli altri movimenti socialistici che, avvelenati d’autorità, stanno affondando ogni giorno di più. Il nostro atteggiamento - conferma viva delle idee generali che andiamo diffondendo ormai da un secolo - deve caratterizzarci così nettamente che i lavoratori imparino, oggi nella discussione, domani nell’azione, a sentirci onesti e capaci portatori di verità. Di verità che sono eterne ma s’esprimono in termini attuali, additano indirizzi pratici, guidano a costruire.

 


 

Note

[1] Il termine comunismo non va assolutamente associato ad un sistema politico ed economico imposto dall’alto. In termini più generali, il comunismo è la messa in comune delle risorse e la gestione in comune. Uno degli esempi classici di comunismo (sforzo comune, comunicazione a tutti dei dati) è la scienza, come rilevato da Robert K. Merton nel suo saggio Science and Technology in a Democratic Order (1942).

[2] Harold Joseph Laski (1893 – 1950) economista e uomo politico. Negli ultimi anni della sua vita è stato un acceso sostenitore di un sistema politico influenzato dallo stalinismo.

[3] James Burnham (1905 – 1987) filosofo e studioso dei sistemi politici. Nel suo testo più famoso, The Managerial Revolution, vede nell’emergere dei manager aziendali e dei burocrati statali la nascita di una nuova élite di gestionari al posto dei vecchi proprietari d’impresa edella classica élite politica.

[4] William Henry Beveridge, (1879 – 1963) esponente del partito liberale, riformatore sociale. Sulla base di un suo rapporto (The Beveridge Report) venne introdotto lo stato assistenziale inglese (Welfare State) dopo la seconda guerra mondiale.

[5] Autorità va qui intesa nel senso di “potere dominante”.

[6] Meglio sarebbe il seppellimento della immagine deformante che il potere politico e religioso di un tempo hanno dato di Cristo e di Marx.

 


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