Luigi Fabbri

Sull’autorità

(1911)

 



Nota

Una chiarificazione ulteriore del pensiero anarchico sulla autorità, con la classica distinzione tra autorità imposta (dominio) e autorità accettata (competenza).

Fonte: Luigi Fabbri, L’ideale anarchico, 1911.

 


 

Anarchia significa, come dice la stessa etimologia della parola, negazione di autorità. E noi anarchici infatti neghiamo il principio di autorità combattendolo in tutte le sue manifestazioni di violenza e di coazione. Combattiamo l'autorità quando essa si personifica in un potere più o meno esteso od intenso, dei pochi sui molti ed anche dei molti sui pochi, il quale costringa, con la forza o con l'inganno o col ricatto o con la minaccia di un danno, una collettività e gli individui che la compongono a fare o non fare una data cosa, sia pure in nome di un principio astratto creduto buono ed utile alla generalità. Il governo che manda il carabiniere a prendere per il bavero il giovane di vent'anni per costringerlo a fare il soldato o ad arrestare un cittadino perché dice male del principe, è una forza dell'autorità; il prete, che con le fandonie religiose e lo spauracchio della vita futura mutila la natura umana costringendo l'uomo all'esercizio macchinale della preghiera, e vietandogli di pensar come vuole, è l'autorità che inganna; il padrone che costringe l'operaio a lavorare per pochi soldi molto tempo e gli impedisce così di godere la vita, con la minaccia di lasciarlo sul lastrico a morire di inedia, è l'autorità che affama con un ricatto; il legislatore infine che fabbrica le leggi, con cui si limita la libertà dei cittadini per tenerli sottomessi al governo, al prete ed al padrone, e l'osservanza delle quali è imposta con tutto un sistema punitivo che va dal carcere alla morte, è l'autorità — un'autorità che combattiamo insieme a tutto il complicato meccanismo che ella si è fabbricata attorno per sostenersi.

Questa è l'autorità che neghiamo, la quale ha fondamento nella violenza e nella coazione; ed abbiamo voluto spiegarci perché non ci si fraintenda.

Infatti, quando noi affermiamo senz'altro il nostro principio di negazione d'ogni autorità, c'è sempre qualcuno che sorge ad obiettarci: «Ma come? In anarchia, non essendoci rispetto per alcuna autorità, ciascuno potrà fare il comodo suo, anche facendo cose pazze. I muratori che costruiranno una casa non vorranno ubbidire all'autorità dell'architetto, gli infermieri all'autorità del medico, i ferrovieri all'autorità del capo stazione, e così via di seguito. A questo modo la casa crollerà presto, i malati moriranno, i treni partiranno troppo presto o troppo tardi, provocando disastri…..»

Ragionar così vuol dire, con la scusa della logica, portare le idee fino all'assurdo; a cui noi invece non giungiamo, convinti che tutte le idee, anche migliori, condotte all'assoluto, divengono o cattive o impraticabili.

Certo, in anarchia ci sarà ancora l'autorità — se così si può chiamare — della scienza e dell'esperienza, ed anzi io credo che quest'autorità sarà molto maggiore e più sentita che non oggi. Ma ad essa si conformeranno tutti, senza bisogno di un organo coattivo che ve li costringa, sia per la coscienza collettiva ed individuale più evoluta, sia per un miglioramento psicologico dell'umanità cui condurrà il nuovo assetto sociale — ma sopratutto perché tutti vi troveranno il proprio interesse, e tutti vi saranno costretti dal bisogno. Del resto, anche oggi c'è forse bisogno del carabiniere per costringere il muratore a dar retta al capo-mastro, l'infermiere a seguire il consiglio del medico, il ferroviere a stare scrupolosamente attento alle indicazioni del capo-stazione?

La violenza e l'inganno sono oggi soltanto necessari per costringere gli uomini ad ubbidire all'autorità del governo, del padrone e del prete [1]; e questa precisamente è una prova che ciò che vogliono i preti, i padroni e i governanti non corrisponde più ai bisogni ed alla coscienza evoluta della società.

Consci di tutto ciò, per questo appunto noi anarchici crediamo d'interpretare le necessità dei tempi nuovi combattendo l'autorità sotto il suo molteplice aspetto violento, nelle istituzioni che ci sembra non più corrispondano ai bisogni dell’umanità.

Tacito, nel descrivere il periodo della decadenza della repubblica romana, che fu pure il periodo in cui furono fatte più leggi, dice appunto che le molte leggi sono indice d'un pessimo governo; e ciò vuol dire che quanto più certe istituzioni, per reggersi, hanno bisogno di leggi, tanto meno per le condizioni evolute della società, quelle date istituzioni hanno ragione di esistere. Se Tacito [2] aveva ragione, e l'aveva certamente, mai una società è stata più alla vigilia di una rivoluzione della attuale, in cui i governi sono così rimpinzati di leggi da non averne riscontro in alcun altro periodo storico.

 


Note

[1] Dai tempi in cui scriveva Fabbri il potere del prete di determinare o indirizzare i comportamenti delle persone è diminuito notevolmente e in alcuni paesi è del tutto nullo. Questo per effetto della secolarizzazione e dell'imporsi del laicismo che ha rimpiazzato la Chiesa con lo Stato come potere culturale dominante.

[2] Negli Annales (Libro III, 27) Tacito afferma: “Corruptissima re publica plurimae leges” ("moltissime sono le leggi in uno Stato estremamente corrotto").

 


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