Nota
Un testo breve, molto interessante, che mette in luce quelli che sono limiti pervicaci nel pensiero degli anarco-capitalisti e degli anarco-comunisti e che costoro non sembrano essere ancora in grado di superare.
Nel mio percorso personale per approdare a una concezione politica di stampo anarchico (che, beninteso, non è ancora maturata definitivamente e che piuttosto è ancora nella fase in cui a valere è il panarchico ‘diritto di sperimentare’), ho fatto tesoro di letture spesso contrastanti, che, al di là del motivo anarchico strutturale (e che permette loro di essere definite in un certo senso ‘libertarie’) sono caratterizzate spesso da idee opposte e mutualmente esclusive. Un esempio su tutti sono le letture fatte a favore del capitalismo e a favore del comunismo. L’obiettivo di questa brevissima riflessione è di esporre i limiti legati alla seconda componente dei termini anarco-capitalismo e anarco-comunismo, lasciando da parte per il momento l’elemento ‘anarco’. È il mio contributo, che nel corso del tempo andranno quasi sicuramente aumentando.
Cosa non va nell’anarco-capitalismo?
Gli anarchici a favore di un mercato capitalistico, spesso e volentieri, sono in grado di produrre alcune delle analisi più interessante contro l’autorità statale e lo strapotere delle istituzioni centrali. Più che gli anarco-capitalisti classici, come Rothbard, sto pensando agli an-cap di nuova generazione, sicuramente David Friedmann, ma ancora di più Bryan Caplan e Michael Huemer. Quest’ultimo, nel suo Il problema dell’autorità politica [1], forse traccia la migliore analisi e critica dell’autorità statale dei questi decenni. Oltretutto, la seconda parte del libro si concentra chiaramente su quella che sembra essere la proposta anarchica più ragionevole: l’anarco-capitalismo (il grande punto di forza di Huemer è proprio il costante appello alla ragionevolezza e a un ragionamento che non prescinda anche dal senso comune). La costruzione teorica di Huemer si basa principalmente su una concezione della filosofia progressiva e su un apprezzamento del progresso che la società ha parallelamente (o proprio grazie allo sviluppo della filosofia) compiuto nel corso dei secoli, in particolare dall’avvento del liberalismo.
Il primo grande problema legato al capitalismo, tuttavia, risiede proprio nell’evidenza storica che fa della sua genesi tutto ciò che una concezione libertaria dovrebbe rifiutare. In particolare, come ha scritto Kevin Carson in vari suoi interventi, la creazione della proprietà privata individuale è il frutto di un processo avvenuto principalmente in condizioni di potere statale o para-statale. Un esempio su tutti:
La proprietà privata delle recinzioni fu ottenuta, non a spese di primitivi che usavano la terra per cacciare e raccogliere bacche o altro, ma a spese dei contadini che già avevano messo a frutto la terra coltivandola e usandola per sfamarsi, contadini a cui fu rubata l’indipendenza. (Kevin Carson, I miti del capitalismo, p. 15) [2]
Dopotutto, alcuni libertari, come Ayn Rand, hanno spesso giustificato, in nome di una asimmetria tra la concezione dei diritti di proprietà degli occidentali e dei popoli autoctoni come i nativi americani, l’esproprio di terre e la conquista anche violenza di quei territori (tornando indietro in fatto di sensibilità antropologica a prima di Montaigne) [3].
Dunque, il primo problema degli anarco-capitalisti è il fatto che sostengono per buone ragioni un sistema capitalistico che, poi, contraddice la realtà dei fatti e che è costruito piuttosto sul mito dell’appropriazione originaria e sulla restrizione dei diritti di proprietà ai soli diritti di proprietà individuali (tra l’altro delle classi privilegiate e già ricche) [4]. Questo, a dire il vero, non è un atteggiamento che caratterizza solo i moderni capitalisti, ma in generale riguarda anche altre forme di dominio sui più deboli da parte di signori e grandi proprietari terrieri che ottenevano (spesso attraverso il ricatto o l’eccessivo potere de facto su un territorio) il controllo anche su contadini liberi costretti a donare le proprie terre per vedersele restituite in usufrutto (è il caso dei contratti di livello durante il Medioevo). Ecco, quindi, che il grande limite degli anarco-capitalisti è sostanzialmente, almeno per quanto concerne la pratica quotidiana di militanza e diffusione di queste idee, la difesa (seppur riconoscendo a volte l’intervento statale, e definendo tale rapporto di connivenza crony capitalism) dei successi di questo sistema (per esempio l’evoluzione in tema di diritti civili, la riduzione della popolazione al di sotto della fascia della povertà, ecc.) La contraddizione è evidente: difendere un sistema economico che Bauman, seppur per le ragioni sbagliate (ovvero per una difesa dei poteri statali), ha saggiamente definito capitalismo parassitario, semplicemente depurandolo delle forme di capitalismo clientelare più palesi (come i sussidi alle imprese o le licenze, che vengono criticate anche dai libertari di destra) ma mantenendo il cuore di questo sistema intatto. Un caso recente riguarda la fortissima contrapposizione che nel corso del 2020 molti anarco-capitalisti hanno posto alle proteste dei Black Lives Matter, incentrate almeno su tre elementi fondamentali che un qualunque anarchico dovrebbe appoggiare: la violenza della polizia, il razzismo sistemico, come la Chiesa delle crociate con i casi di antisemitismo nei pressi di Treviri e Magonza da parte degli entusiasti che partirono per la così detta Crociata dei pezzenti nel 1096, o come la Spagna del 1942 a Granada); e opposizione al sistema di accumulazione di proprietà attraverso un processo segnato dallo sfruttamento (prima schiavistico e poi salariale) e dall’esproprio arbitrario (anche questo coperto dal consenso delle potenti entità statali).
Un altro problema degli anarco-capitalisti riguardante il secondo termine in gioco, riguarda la strategia di difesa del sistema capitalistico, pressocché invariata fin da Locke e consolidata nei discorsi pubblici da economisti e intellettuali come Milton Friedman, Gene Epstein e altri. La strategia si compone di vari espedienti retorici uniti a varie evidenze storiche o fattuali, talvolta viziate, talvolta false. Esempi di slogan e invettive retoriche sono “perché non ti fai la tua società socialista e vediamo chi vi aderisce?” come se l’unica alternativa a questo sistema capitalistico sia il socialismo e non, per esempio, un sistema autenticamente di libero mercato (o meglio di mercato liberato); oppure “si tratta di contrapporre un sistema basato sulla libertà individuale e il consenso, a un sistema basato sulla coercizione e la programmazione dall’alto persino dei bisogni altrui”. Quest’ultima affermazione, tuttavia, pecca di almeno due errori, il primo, come anche con l’altro argomento-slogan, riguarda il fatto di ipotizzare che lo scenario sia dualistico, o capitalismo o socialismo, e si evita di contemplare così la vera grande alternativa al capitalismo parassitario attuale (ci sono stati anni in cui l’anarchico belga Raoul Vaneigem parlava del sovietismo come della completa realizzazione del capitalismo) [5], ovvero l’anarchia del mercato (o dei mercati) liberato. Esempi del secondo tipo sono proprio quelli secondo cui questo sistema solleciti l’accordo volontario e difenda i diritti individuali. Tuttavia, un sistema che, per via di reti statali e accordi privati, tiene i salari tutti intorno a un certo livello, di fatto impedendo al lavoratore salariato di scegliere l’alternativa migliore, non condanna gli individui ad accettare il ricatto degli accordi che falsano la competizione autentica? Un altro elemento che impedisce la volontarietà ha a che fare non tanto con la scelta di uno dei vari posti liberi in varie aziende tra loro in competizione, bensì con la sostanza stessa dell’attuale versione storica del lavoro salariato. Si tratta, banalmente, della nozione marxiana di sfruttamento, legata al fatto che si definisce tale una qualunque attività alla quale si è legati materialmente per poter sopravvivere. Fin quando il lavoro salariato (o in altri termini il valore del mio lavoro) sarà la precondizione per la mia sussistenza, allora non avrò modo di scegliere realmente e la volontarietà del mio consenso a certe condizioni di lavoro sarà solo fittizio.
In generale, comunque, il problema rimane chiaramente il dubbio che si insinua, la pulce nell’orecchio, dovuto al fatto che i capitalisti non sembrano aver trovato nuove e originali strade per difendere il loro sistema. Al contrario, i comunisti, nel corso del XX secolo e oggi, hanno saputo rinnovare le loro analisi e hanno saputo persino correggere alcune tesi sbagliate (è il caso dell’evoluzione in favore della concezione dell’economia di corrente neoclassica da parte di autori definiti marxisti analitici, come John Roemer; o dell’evoluzione del concetto di lotta di classe arrivato a comprendere alcuni casi, come il lavoro cognitivo, che erano solo stati parzialmente accennati nelle opere di autori precedenti, fino ad arrivare a quelle di Marx).
Argomenti antiquati e contraddizione tra modello economico difeso in teoria e modello economico reale che ha il nome di capitalismo (e che gli anarco-capitalisti si trovano a difendere spesso, soprattutto per criticare qualunque azione che danneggi i privilegi illegittimi di chi in questo sistema si è arricchito, acquisendo anche potere). Questi i grandi limiti dell’anarco-capitalismo. (Ci sarebbero anche problemi di natura storica, come la recente strizzata d’occhio all’alt-right da parte di Hans Hermann Hoppe, o la declinazione destrorsa e a tratti conservatrice, se non bigotta, ma saranno semmai tema di altri interventi).
Cosa non va nell’anarco-comunismo?
Il problema dell’analisi di stampo comunista, che nel caso della fusione con l’anarchismo assume delle connotazioni sì inedite ma che possono ben coesistere con le più recenti evoluzioni del comunismo stesso (sempre più consapevole della sua natura antistatalista, se si vuole far fede alla lettera marxiana e non alle deformazioni staliniste), riguarda principalmente due elementi. Il primo elemento ha più a che fare con delle semplici assunzioni di fatti che sono sotto gli occhi di tutti. Si tratta della totale incapacità di essere, a dispetto di analisi spesso elaboratissime, al passo con i tempi e soprattutto in grado di intervenire nel reale. Non si tratta solo di un problema legato al raggio dell’azione politica delle realtà militanti di orientamento comunista; si tratta piuttosto di un problema interno e strutturale alle stesse teorie. Oltre agli evidenti limiti di gran parte della vulgata marxista (che di Marx tende a citare ciò che è invecchiato peggio e che difficilmente si interessa alle discipline più recenti, come l’antropologia, la psicologia, la sociologia o l’economia), il comunismo soffre di una sindrome che avremmo più sensatamente visto bene addosso a realtà opposte. Si tratta della Sindrome del conservatore, ovvero della gravissima malattia per cui si entra in uno stato patologico (e quindi strettamente legato al funzionamento della macchina ideologica) che prevede che il comunismo debba difendere modelli epistemologici e pratici antiquati, bigotti, estremamente inattuali. Uno su tutti l’idea dell’organizzazione centrale, dello statalismo, del collettivismo, delle soggettività che escono passando per la porta dalla stanza della logica di gruppo, per rientrarci inevitabilmente passando stavolta per la finestra (e questa finestra può arrivare a chiamarsi anche socialdemocrazia). Un limite che non si può riconoscere a certe realtà autonome e militanti, ma che caratterizza i frutti più maturi della teorizzazione della nostra epoca (con esempi importanti come Domenico Losurdo o Slavoj Zizek).
Accanto a questo problema, e forse inscindibilmente da questo, abbiamo il grande limite dell’egemonia culturale. Questo problema, che potrebbe essere costruito al modo di un paradosso, sostiene che sia necessario distruggere l’attuale egemonia culturale (che è sempre egemonia ideologica e politica), in favore di diversi processi di produzione della cultura (e della coscienza politica). Tuttavia, anche se già Bakunin notava come parlare di politica in luogo di impegno sociale sia del tutto non anarchico, da qui nasce una assurdità, poiché si tenta di destituire un potere cultura egemonico attraverso la legiferazione statale, l’insegnamento scolastico (obbligatorio e organizzato a partire dalla volontà statale).
Infine, si può anche notare la sfiducia totale che i comunisti nutrono nei confronti del diritto di secessione che, laddove sopravvive in ambito libertario, si unisce piuttosto a forme di mutualismo contaminate dall’ideologia di mercato (e che ha dato origine nel corso degli anni a varie correnti left-libertarian ma da sapore liberale o proudhoniano). Questa totale sfiducia è forse (come dimostra l’ultimo lavoro del marxista Emiliano Alessandroni) [6] il frutto di una riappacificazione con Hegel e con Lenin, con la dialettica e l’idea dell’espressione di un universale che poco a che fare con i sentimenti comuni (da cui, ecco un altro problema, il comunismo si è sempre di più allontanato, pur pretendendo di comprendere i disagi degli ultimi).
Un problema sia degli anarco-capitalisti che degli anarco-comunisti
In ultima battuta vorrei notare un limite comune ad entrambe le correnti di pensiero. Il problema dell’anarchia, se è un problema di condizioni di esistenza di una società liberamente e volontariamente organizzata, riguarda necessariamente la rinuncia alla difesa del concetto di spazio o di estensione. Sia nelle loro forme localiste, sia nelle forme imperialiste o di stampo internazionalista (dunque, sia le autonomie locali mutualiste o anarco-capitaliste, sia il colonialismo liberale o il comunismo planetario), le correnti legate al modello capitalista e quelle legate al modello comunista sono vittime dello stesso virus: il territorialismo. Questo nemico si aggira in ogni animo umano e forse un Walter Benjamin dei nostri tempi avrebbe identificato quel fascismo psicologico e antropologico, nascosto in ognuno di noi proprio con il territorialismo. Esistono vari modi di far conciliare anarco-capitalismo e marxismo (quindi quel comunismo che sappia ancora leggere adeguatamente Marx senza cadere nella tentazione di fare la parte dei nostalgici autoritari), sicuramente rinunciando da un lato e dall’altro a certi elementi (come viene suggerito anche in una serie di articoli di Fabio Massimo Nicosia) [7].
Un altro modo sarebbe quello di rinunciare a due versioni del futuro così limitate, in favore di una prospettiva anticapitalista e non comunista, come quella che di recente è portata avanti da Kevin Carson e dalla corrente del freed-market anarchism. Tuttavia, ciò che rimane necessario, a prescindere dalla strada che si vorrà prendere, è ancora una volta il superamento di questo vincolo territorialista, di questa malattia del dominio, che impedirà, fin tanto che sopravviverà, qualunque forma sana di anarchia, che comprenda la competizione e l’aggregazione e l’associazionismo volontario e virtuale.
[1] Huemer, Michael (2013), Il problema dell’autorità politica. Un esame del diritto di obbligare e del dovere di obbedire, trad. it. 2016, Liberilibri.
[2] Carson, Kevin (2020), I miti del capitalismo. La tragedia della proprietà privata e la farsa della sua difesa, trad. it. a cura di Enrico Sanna, «Center for a Stateless Society».
[3] Ibid., p. 16
[4] Widerquist/McCall, Prehistoric Myths in Modern Political Philosophy, p. 108. Citato in Carson, I miti del capitalism, op. cit, p. 17.
[5] Vaneigem, Raoul (1967), Le Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes générations, Gallimard.
[6] Alessandroni, Emiliano (2021), Dittature democratiche e democrazie dittatoriali. Problemi storici e filosofici, Carrocci.
[7] Gli articoli di cui parlo sono raccolti nel sito «panarchy.org», sotto il titolo Marxismo e anarco-capitalismo (Nicosia, 2012).