Mikhail Bakunin

Sulla libertà

(1871)

 


 

Nota

L'interesse di questo estratto è duplice. Innanzitutto, per il fatto che l’autore chiarisce la differente visione della libertà tra i liberali (che Bakunin definisce idealisti) e gli anarchici (definiti qui materialisti nel senso di persone concrete, pragmatiche, attente alla realtà delle cose). In secondo luogo, è interessante quello che Bakunin dice sulla società contro cui occorre rivoltarsi ogni qual volta essa non soddisfa le esigenze di libertà e di sviluppo dell'umanità intera. E questa rivolta sociale è, secondo Bakunin, molto più difficile da realizzare che non quella contro lo Stato, forma storicamente transitoria di organizzazione della vita in società.  

Fonte: Mikhail Bakunin, L’empire Knouto-Germanique et la Révolution Sociale en France, 1870-1871.

 


 

La libertà nella concezione dei liberali dottrinali

I liberali dottrinali, o quanto meno quelli tra di loro che prendono sul serio le teorie liberali, partono dal principio della libertà individuale e si ergono innanzitutto, come ben si sa, avversari dello Stato. Essi sono stati i primi ad affermare che il governo, vale a dire quell’insieme di funzionari organizzati in una qualche maniera e incaricati di esercitare l’azione statale, era un male necessario e che il progresso civile consisteva nel fatto di diminuire sempre di più le attribuzioni e le prerogative dello Stato. Questa è la loro teoria. Eppure, noi vediamo che, in pratica, tutte le volte che l’esistenza dello Stato è messa in dubbio sul serio, i liberali dottrinali si fanno avanti come dei sostenitori non meno fanatici del diritto assoluto dello Stato di quanto lo siano gli assolutisti monarchici e i giacobini.  
Il loro culto dello Stato, che almeno in apparenza sembra così totalmente in opposizione alle loro massime liberali, si spiega per due motivi. Gli interessi concreti di classe fanno sì che l’immensa maggioranza dei liberali dottrinari appartenga alla borghesia. Questa classe, così numerosa e così ossequiosa, non chiederebbe di meglio che concedere a sé stessa il diritto o il privilegio della più totale libertà. Tutta la sua economia sociale, che costituisce la base reale della sua esistenza politica, non ha altra regola, lo si sa bene, al di fuori di questa libertà espressa nelle parole divenute così famose: “Laissez faire” e “Laissez passer”.
Ma essa non ama questa libertà piena se non per sé stessa e solo a condizione che le masse “troppo ignoranti per goderne senza abusarne” restino sottomesse alla più severa disciplina dello Stato. Infatti, se le masse, stanche di lavorare per altri, insorgessero, tutta l’esistenza politica e sociale della borghesia andrebbe in frantumi. Così noi vediamo, sempre e dappertutto, che, quando le masse dei lavoratori si agitano, anche i liberali borghesi più entusiasti della libertà, tornano ad essere immediatamente dei partigiani forsennati dell’onnipotenza dello Stato. E dal momento che l’agitazione delle masse popolari diventa per loro, al giorno d’oggi, un disagio crescente e cronico, vediamo i borghesi liberali, anche nei paesi più liberi, convertirsi sempre più al culto del potere assoluto dello Stato.
Accanto a questo motivo pratico, ve ne è un altro di natura interamente teorica e che spinge ugualmente, persino i liberali più sinceri, a ritornare sempre al culto dello Stato. Essi sono e si chiamano liberali perché assumono come base e punto di partenza della loro teoria la libertà individuale. Ed è proprio a causa di questo punto di partenza o di questa base che essi devono arrivare, per uno sbocco fatale, a riconoscere il diritto assoluto di sovranità dello Stato.
La libertà individuale non è affatto, per essi, un prodotto storico della società. Essi pretendono che la libertà sia anteriore ad ogni società e che ogni essere umano l’abbia nascendo, con la sua anima immortale, come un dono divino. Da ciò ne risulta che per essi l’individuo è un essere completo e in qualche sorta assolutamente indipendente, e che può rimanere tale solo se resta al di fuori della società. [1] Essendo libero, anteriormente e al di là della società, ne risulta per loro che l’essere umano dà vita alla società attraverso un atto volontario e per mezzo di una sorta di contratto, istintivo e tacito o cosciente e formale. In sintesi, in questa teoria non sono gli individui che sono il prodotto dell’interazione sociale, ma sono essi che producono la società, spinti da una qualche necessità esteriore, quale ad esempio il lavoro o la guerra.   
Si nota quindi che per i sostenitori di questa teoria la società propriamente detta non esiste. La società umana naturale, il punto di partenza reale di ogni umana civiltà, il solo ambiente nel quale possa davvero nascere e svilupparsi la personalità e la libertà degli esseri umani, è a costoro qualcosa del tutto sconosciuto. I liberali, da un lato non riconoscono che i singoli individui, esseri che esistono per sé stessi e da sé stessi; dall’altro lato, accettano solo una società convenzionale, formata in maniera arbitraria da questi individui e fondata su un contratto, sia formale che tacito, che per essi assume la forma di Stato.
(I liberali dottrinali sanno bene che nessuno Stato storicamente è basato su un contratto sottoscritto volontariamente dai suoi membri. Tutti gli Stati sono sorti attraverso interventi violenti e conquiste. Tuttavia, questa finzione del libero contratto sociale come base dello Stato è ad essi necessaria per sostenere le loro teorie e l’accettano concordi, senza rifletterci più di tanto).
Gli individui, la cui massa convenzionalmente riunita forma lo Stato, appaiono, in questa teoria, come degli esseri del tutto particolari e pieni di contraddizioni. Dotato ciascuno di una anima immortale e di una libertà o libero arbitrio inerente a tutti, gli individui sono, da un lato, degli esseri infiniti, assoluti e come tali completi in sé stessi e per sé stessi, del tutto sufficienti a sé stessi, senza alcun bisogno di altri, in pratica nemmeno di Dio. Infatti, essendo immortali e infiniti, sono essi stessi degli Dei [2]. Dall’altro lato, essi sono degli esseri estremamente brutali e materiali, deboli, imperfetti, limitati e assolutamente dipendenti dalla natura esterna che li indirizza, li avviluppa e finisce, prima o poi, per ridurli in polvere. Considerati sotto il primo angolo di visuale essi hanno così poco bisogno della società che quest’ultima appare piuttosto come un ostacolo alla pienezza del loro essere, alla loro perfetta libertà.

[...]

[Nel sistema degli idealisti liberali] l’individuo è all’origine un essere libero e immortale, che finisce per diventare uno schiavo. In quanto spirito libero e immortale, infinito e completo in sé stesso, il singolo non ha bisogno della società; ne consegue che, se egli si pone in una società, ciò può avvenire solo per una sorta di rinuncia, o perché dimentica e perde la coscienza della propria immortalità e libertà.
In quanto essere contraddittorio, interiormente infinito nello spirito ma esteriormente dipendente, carente e limitato materialmente, l’individuo è costretto ad associarsi non per soddisfare i bisogni della propria anima, ma per alimentare quelli del proprio corpo. La società nasce quindi per una sorta di sacrificio degli interessi e dell’indipendenza dell’anima di fronte alle spregevoli necessità del corpo. Per l’individuo interiormente libero e immortale, la società è una sventura, una schiavitù, una rinuncia almeno parziale alla propria originaria libertà.
Conosciamo bene la frase di rito che, nel gergo di tutti i sostenitori dello Stato e delle sue leggi, esprime questa degenerazione e questa immolazione, questo primo passo fatale verso l’asservimento dell’essere umano. L’individuo, che gode di una libertà piena allo stato di natura, vale a dire prima di diventare membro di una qualche società, entrando a far parte di essa, sacrifica una parte della sua libertà in cambio della garanzia di ricevere molto di più dalla società. A colui che chiede una spiegazione al riguardo, gli si risponde di solito con questa frase: “La libertà del singolo essere umano non ha altri limiti che la libertà di tutti gli altri individui.” [o, detto in altro modo, la libertà del singolo finisce dove inizia quella di un altro].
Apparentemente nulla sembra più giusto di ciò, non è vero? Eppure, questa affermazione teorica contiene i germi di tutto il pensiero dispotico. Conformemente all’idea di base degli idealisti di tutte le tendenze, e contrariamente a tutti i dati di fatto della realtà, il singolo individuo appare come un essere assolutamente libero soltanto e fino a quando rimane in disparte dalla società. Da cui ne consegue che quest’ultima, considerata e intesa unicamente come società giuridica e politica, vale a dire come Stato, è la negazione della libertà. Ecco il risultato dell’idealismo astratto, del tutto contrario, come si vede, alle deduzioni del materialismo concreto che, conformemente a quello che avviene nel mondo reale, considera che la libertà individuale delle persone nasce all’interno della società, come conseguenza necessaria dello sviluppo collettivo di tutta l’umanità.

 
La libertà nella concezione degli anarchici

La definizione materialista, reale e generale della libertà, del tutto opposta a quella degli idealisti, è la seguente: l’essere umano diventa pienamente umano e arriva alla consapevolezza e alla realizzazione della sua umanità solo nell’ambito della società e solo attraverso l’agire collettivo di tutti nella società. L’individuo si emancipa dal giogo delle forze naturali a lui esterne, unicamente attraverso le attività in comune o l'agire sociale, che soli sono capaci di trasformare la terra in un luogo favorevole agli sviluppi dell’umanità. Senza questa emancipazione materiale non vi sarebbe alcuna emancipazione intellettuale e morale per chicchessia.
L’essere umano non può emanciparsi dal giogo della sua propria natura, vale a dire, non può sottomettere gli istinti e i movimenti incoscienti del suo proprio corpo, facendoli guidare dal suo spirito sempre più sviluppato, se non attraverso un processo di educazione e di istruzione. Ma questo processo è eminentemente ed esclusivamente sociale. Al di fuori del vivere sociale l’essere umano rimane sempre una bestia selvaggia o un eremita scontroso, il che significa press’a poco lo stesso.
In sostanza, l’essere umano isolato non può prendere coscienza della sua libertà. Essere liberi, per l’individuo, significa essere riconosciuto, considerato e trattato come tale da un altro individuo, e da tutti gli individui attorno a lui. La libertà, quindi, non è il risultato dell’isolamento ma del prendere in considerazione l'altro e dell'attenzione reciproca tra le persone; non sorge dall’escludersi dalla vita sociale ma, al contrario, dal relazionarsi. La libertà di ciascun individuo non è altro che il riflesso dell’umanità della persona e dei suoi diritti come essere umano, presenti nella coscienza di tutti gli esseri liberi, suoi fratelli e suoi simili.
Io non posso dirmi e sentirmi libero se non in presenza e in rapporto ad altri esseri umani. Di fronte ad un animale di una specie inferiore non sono né una persona libera né un essere umano perché questo animale è incapace di concepire e, di conseguenza, anche riconoscere la mia umanità. Io sono umano e libero solo nella misura in cui riconosco la libertà e l’umanità di tutti gli esseri umani attorno a me. Solo rispettando le loro caratteristiche umane rispetto anche le mie. Un cannibale che si ciba del suo prigioniero trattandolo come bestia selvaggia di cui nutrirsi non è un essere umano ma è, esso stesso, una bestia. Un padrone di schiavi non è una persona umana ma solo un padrone. Ignorando l’umanità dei suoi schiavi, egli ignora del tutto la sua propria umanità. Tutta la società antica ci ha fornito prova di ciò: i Greci e i Romani non si sentivano liberi come esseri umani, non si consideravano tali sulla base di un diritto umano. Si consideravano dei cittadini privilegiati, in quanto Greci e Romani, solo all’interno della loro patria, fino a quando essa fosse rimasta indipendente, non sottomessa e, anzi, sottomettesse gli altri popoli godendo della protezione speciale che ritenevano fosse a loro accordata dalle proprie Divinità nazionali. Essi accettavano supinamente la schiavitù, né credevano di avere il diritto di ribellarsi se, una volta vinti, finivano per diventare essi stessi schiavi.

[…]

Io non sono veramente libero se non quando tutti gli esseri umani attorno a me, uomini e donne, sono ugualmente liberi. La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma del mio essere libero.
Io non divento veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, di modo che, più numerosi sono gli esseri liberi attorno a me e più profonda e più ampia la loro libertà, tanto più estesa, più profonda e più ampia diventa la mia stessa libertà. All’opposto, è l’asservimento degli esseri umani che erige ostacoli alla mia libertà o, ciò che è lo stesso, è il loro essere trattati da bestie che costituisce una negazione della mia umanità. Infatti, occorre ripeterlo ancora una volta, non posso dirmi veramente libero se non quando la mia libertà, o, in altre parole, la mia dignità di essere umano, mi è confermata da un accordo unanime. La mia dignità di essere umano significa che godo del mio diritto umano consistente nel non essere schiavo di nessuno e nel decidere dei miei atti sulla base delle mie convinzioni personali e come riflesso della coscienza ugualmente libera di tutti. La mia libertà personale, convalidata così dalla libertà di tutti, si estende all’infinito.
Si vede dunque che la libertà, così com’è concepita dai materialisti pragmatici, è un fatto molto positivo, complesso ed eminentemente sociale: essa, infatti, può realizzarsi solo nella società e praticando, ogni singolo individuo, la massima giustizia e solidarietà con tutti.
Nella libertà si possono distinguere dei momenti di sviluppo, il primo dei quali è di carattere decisamente positivo e sociale: esso consiste nel pieno sviluppo e nel completo godimento da parte di ognuno di tutte le facoltà e potenzialità umane realizzate attraverso l’educazione, l’istruzione scientifica e la prosperità materiale, tutte cose che l’essere umano può acquisire solo con l'attività in comune, manuale e intellettuale, di tipo muscolare e nervoso, di tutta la società.
Il secondo elemento o momento della libertà è negativo. È il momento della rivolta dell’individuo contro ogni potere dispotico, divino e umano, collettivo e individuale.

 

La rivolta contro un Dio-padrone, contro lo Stato tirannico e contro una Società soffocante

Si tratta, in primo luogo, della rivolta contro la tirannia del supremo fantasma della teologia, contro Dio. È evidente che finché avremo un padrone in cielo saremo schiavi sulla terra. La nostra ragione e la nostra volontà saranno parimenti annullate. Finché saremo convinti di dovere a Dio un’obbedienza assoluta, e che davanti a Dio non è possibile altro tipo di obbedienza, dovremo necessariamente sottometterci in modo passivo e senza la minima critica alla sacra autorità dei suoi intermediari e dei suoi eletti: i messia, i profeti, i legislatori per divina ispirazione, gli imperatori, i re e tutti i loro funzionari e ministri, rappresentanti e servitori consacrati delle due grandi istituzioni che si impongono, pretendendo di essere istituite da Dio stesso, per guidare gli individui: la Chiesa e lo Stato. Ogni potere temporale o umano è fatto discendere direttamente dall’autorità spirituale o divina. Ma il potere di dominare è la negazione della libertà. Dio, o piuttosto questa finzione di Dio, è diventata la consacrazione e la causa intellettuale e morale di ogni schiavitù sulla terra. La libertà degli individui sarà completa solo quando sarà stata annientata completamente la nefasta finzione di un padrone celeste.
Si tratta, in secondo luogo, della rivolta di ognuno contro la tirannia degli uomini, contro il potere sia individuale che sociale rappresentato e legalizzato dallo Stato. A questo punto è necessario intendersi bene, e a tal fine bisogna stabilire una distinzione molto netta tra il potere ufficiale, e quindi tirannico, della società organizzata come Stato da una parte e, dall’altra, l’influenza e l’azione naturale della società non ufficiale su ciascuno dei suoi membri.

La rivolta contro l’influenza naturale della società è molto più difficile per l’individuo che non la rivolta contro la società ufficialmente organizzata, contro lo Stato, sebbene la prima rivolta sia spesso assolutamente necessaria quanto la seconda. La tirannia sociale, che è spesso opprimente e funesta, non presenta quel carattere di violenza imperativa, di dispotismo legalizzato e formale che è proprio del potere dello Stato. La tirannia sociale non s’impone come una legge alla quale ogni individuo è obbligato a sottomettersi sotto pena di incorrere in una pena giuridica. La sua azione è più dolce, insinuante, impercettibile, ma è anche più potente di quella del potere statale. Essa domina gli individui con i costumi, le tradizioni, i sentimenti, i pregiudizi, le abitudini, sia per quanto riguarda la vita materiale che quella dello spirito e del cuore, costituendo ciò che chiamiamo opinione pubblica. Questa tirannia avvolge l’essere umano sin dalla nascita, lo pervade, lo penetra e forma la base stessa della sua esistenza individuale, così che ognuno ne è in qualche modo partecipe e complice, contro sé stesso, in misura maggiore o minore, e spesso senza nemmeno accorgersene. Da ciò consegue che, per ribellarsi all’influenza che la società esercita naturalmente su di lui, l’individuo deve, almeno in parte, rivoltarsi contro sé stesso, perché con tutte le sue tendenze e aspirazioni materiali, intellettuali e morali egli non è altro che il prodotto della società. Di qui l’immenso potere esercitato dalla società sugli individui.
Dal punto di vista della morale assoluta, cioè dal punto di vista del rispetto umano, e dirò tra poco che cosa intendo con queste parole, il potere della società può essere tanto benefico quanto dannoso. È benefico quando tende allo sviluppo della scienza, della prosperità materiale, della libertà, dell’equità, della fraterna solidarietà tra gli esseri umani; è dannoso quando ha tendenze contrarie. Se un individuo nasce in una società di bruti sarà, tranne rare eccezioni, un semibruto; se nasce in una società governata da superstizioni clericali, diventerà un idiota, un ipocrita; in una banda di ladri diventerà probabilmente un ladro; nelle file della borghesia, uno sfruttatore del lavoro altrui; e se ha la sventura di nascere nella società dei semi-dei che governano questa terra, gli aristocratici, i principi, i figli del re, sarà, secondo il livello delle sue capacità, dei suoi mezzi, e del suo potere, una persona che disprezza e assoggetta l’umanità intera, un despota. In tutti questi casi, la rivolta del singolo contro la società che l’ha visto nascere diventa una esigenza imprescindibile se costui vuole diventare un vero essere umano.
Ma, lo ripeto, la rivolta dell’individuo contro la società è una impresa molto più difficile della rivolta contro lo Stato. Lo Stato è una istituzione storica, transitoria, una forma passeggera di organizzazione della società, come la stessa Chiesa di cui è il fratello minore. Lo Stato non ha affatto il carattere fatale e immutabile che ha la società, che precede tutti gli sviluppi dell’umanità e che, essendo parte integrante del potere imperioso delle leggi di natura, delle azioni e delle manifestazioni dei fenomeni naturali, costituisce la base stessa di ogni esistenza umana.
L’individuo, almeno fin dal momento in cui ha compiuto i primi passi verso l’umanità, dopo che ha iniziato a diventare un essere umano, vale a dire un essere più o meno parlante e pensante, nasce nella società come la formica nasce nel suo formicaio e l’ape nel suo alveare. Non la sceglie ma, al contrario, ne è il prodotto, ed è fatalmente sottomesso alle leggi naturali che presiedono al suo sviluppo necessario, come obbedisce a tutte le altre leggi naturali. La società è anteriore e perdura al di là di ogni singolo essere umano, come avviene per la natura stessa. Infatti, la società è eterna come l’ambiente naturale o piuttosto, sorta sulla terra, la società durerà fino a quando esisterà la terra. Una rivolta totale contro la società è dunque impossibile per l’individuo come lo sarebbe una rivolta contro la natura, essendo la società umana nient’altro che l’ultima grande manifestazione o creazione della natura sulla terra. E un individuo che volesse sbarazzarsi della società, vale a dire sopprimere la natura in generale e la sua propria natura in particolare, si porrebbe, così facendo, al di fuori di tutte le condizioni per una esistenza reale. Si lancerebbe nel nulla, nel vuoto assoluto, nella pura astrazione, alla ricerca di un qualche Dio.
Per questo non ci si può chiedere se la società sia un bene o un male come sarebbe impossibile chiedersi se la natura in quanto essere universale, materiale, reale, unico, supremo, assoluto, sia un bene o un male. La società è più di tutto ciò. È un immenso fatto positivo e primitivo, anteriore ad ogni consapevolezza, ad ogni idea, ad ogni apprezzamento intellettuale e morale. È la base stessa, il mondo nel quale fatalmente e in una fase successiva si sviluppa per noi ciò che definiamo il bene e il male.

 


Note

[1] Bakunin fa riferimento alla teoria di Rousseau che l’essere umano nasce libero e la vita in società lo rende schiavo. Per Bakunin, come vedremo nel prosieguo della sua analisi, la libertà è frutto della solidarietà sociale che permette all’essere umano, partecipe delle relazioni sociali, uno sviluppo che sarebbe impossibile e impensabile se rimanesse un essere del tutto isolato.

[2] L'idea dell'Uomo come Dio compare nella filosofia tedesca da Hegel a Feuerbach. Max Stirner ha condotto una critica serrata del pensiero liberale che eleva l'uomo al ruolo di Dio: “L'uomo è per il liberale l'essere supremo, l'uomo è il giudice di sé stesso, l'umanità è il suo obiettivo o il suo catechismo. Dio è spirito ma l'uomo è “lo spirito più perfetto”, il risultato finale della lunga ricerca dello spirito, ossia del sondare gli abissi divini, cioè gli abissi dello spirito.” Ma così facendo, il liberalismo non ha fatto altro che “cambiare padrone, mettendo l'Uomo al posto di Dio e accettando come attribuzione da parte dell'Uomo quello che prima riceveva come dono per grazia di Dio.” (L'Unico e la sua Proprietà, 1845)

 

 


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