Moritz Schlick

Lo Stato

(1952)

 



Nota

Moritz Schlick (1882-1936) filosofo e fisico, associato al Circolo di Vienna i cui membri promuovevano un approccio alla ricerca e alla conoscenza noto come Positivismo Logico.
Questo testo è tratto da un capitolo di un saggio (Natur und Kultur) scritto probabilmente durante gli anni venti e pubblicato solo nel 1952. In esso si trova formulata la proposta di stati in cui le persone decidono a quale organizzazione e amministrazione associarsi senza, per questo, dover emigrare verso nuove terre. In sostanza, l'idea della panarchia o delle comunità volontarie non territoriali.

 


 

Perché l’espansione territoriale del proprio spazio è preziosa per un popolo? Non lo è in sé, ma in quanto i mezzi di sostentamento dei paesi sottomessi contribuiscono all’innalzamento del tenore di vita, come è stato il caso dei Romani e come lo è oggi per l’Impero Britannico.

Ma è chiaro che il dominio politico su un territorio può essere al massimo una condizione sufficiente per lo scambio di beni o di risorse all'interno delle regioni. Non può invece essere condizione necessaria per lo scambio di validi costumi fra i popoli, o di un paese con un altro; lo stesso scopo può essere raggiunto attraverso un processo di reciproco accordo. E, in fondo, questo processo conduce ben più lontano, porta alla comprensione tra tutti gli individui di tutte le regioni e può permettere contatti senza che vi sia dominio. Quanto meno artificiali sono le frontiere e il governo dei paesi, tanto più hanno luogo gli scambi e le comunicazioni, che sono efficaci soprattutto quando avvengono fra individui e piccoli gruppi.

La creazione di confini fra gli Stati ci rende attualmente la vita molto difficile. Essa ostacola gli scambi, e gli abitanti di ogni stato devono cercare, da soli, di attenuare il danno provocato da accordi commerciali artificiosi. La situazione è talmente grave che spesso si creano barriere invisibili anche a danno dello scambio intellettuale, attizzando opposizioni all'interno del paese contro l’accoglienza “di stranieri” o diffondendo idee di “razze aliene”. Cose del genere sono proprie della nostra epoca. Al tempo in cui Schiller affermava: “È un ideale ben povero scrivere solo per una singola Nazione,” probabilmente pochi sospettavano che lo Stato avrebbe un giorno tentato di limitare anche la diffusione delle idee tra territori diversi. Bisogna essere quindi grati a quei Paesi che fanno con altri dei cosiddetti “accordi culturali” e fondano Istituti per la cura delle relazioni intellettuali fra popoli vicini. Ma che siano necessarie tali misure, che la corrente delle idee non possa correre da sola liberamente su e giù attraverso le frontiere politiche, questo non è un buon segno dei tempi.

Il vivere assieme in uno spazio fisico può sviluppare il senso d’appartenenza, ma ciò provoca anche tutti quei mali che portano ai conflitti di cui soffre il mondo, spezzettato in tanti Stati. Perché in definitiva, sono le questioni territoriali che danno origine alla discordia. Ricchezze minerarie, materie prime, fertilità della terra, vantaggi derivanti dalla posizione geografica, sono tutti fattori che, come forze motrici, determinano i rapporti fra i popoli e da cui scaturiscono la guerra e la pace.

Quali fattori di appartenenza esistono oltre allo spazio fisico? I più efficaci nella storia paiono essere: discendenza comune, attività comuni, convinzioni comuni, soprattutto nell’ambito politico e religioso.
È l'origine biologica che fa nascere il principio dello stato razziale; l’attività pratica comune è il principio dello stato civile; le convinzioni di tipo politico sono il principio dello stato dei partiti, e il credo religioso comune porta alle grandi organizzazioni chiamate Chiese.

La divisione dell’umanità in razze si accompagna di solito, a parte alcune eccezioni degne di nota, all’isolamento territoriale, mentre questo vale in misura minore per quanto concerne la divisione per credo religioso. I vari ceti e partiti vivono invece nella mescolanza più totale. Le associazioni e i partiti cercano, in genere, di non separare fisicamente i loro membri. In questi ultimi due casi abbiamo a che fare, peraltro, con principi, puramente interni, di divisione e di appartenenza, di cui possiamo esaminare gli effetti.

Non ci si può semplicemente chiedere: quali individui dovrebbero associarsi? La domanda ha un senso solo se viene chiarito lo scopo dell’unirsi. Potrebbe infatti essere – e lo è davvero – che siano necessari raggruppamenti diversi per scopi diversi, di modo che l'appartenenza di alcuni membri dei gruppi si sovrapponga. Due persone potrebbero trovarsi benissimo tra di loro in una associazione per la protezione degli animali mentre potrebbero non sopportarsi all’interno di una associazione politica.

La nostra domanda era però: quali individui dovrebbero unirsi per formare uno Stato? Ma cosa significa questo? Che scopo si persegue? Chiaramente ciò dipende da quale scopo ha lo Stato stesso. La finalità che noi gli abbiamo attribuito era quella della pace e della sicurezza. In base a quale principio deve avvenire il raggruppamento affinché questo fine venga raggiunto? Se si dovesse avverare che altri fini necessitano altri gruppi che contraddicono gli scopi dello Stato, ne conseguirebbe ben presto che lo Stato non potrebbe assumersi l'onere di far propri questi altri fini. Allora dovrebbe lasciare spazio ad altre organizzazioni, altrimenti ne verrebbe fuori un conflitto interno, data l’impossibilità di attuare, con i suoi mezzi, dei fini del tutto inconciliabili con ciò che persegue: la pace. I mezzi e i fini dello Stato possono essere definiti politici, a differenza di tutti gli altri. Ne consegue, e qui ne sono totalmente convinto, che il fine più alto della politica è la Pace.

Quali sono i principi che devono determinare l'unità politica dei popoli affinché lo scopo dello Stato, la pace nel mondo, possa essere raggiunto?
Non ho nessun motivo di giocare a nascondiglio con il lettore né ho l’intenzione di renderlo ricettivo alle verità che ho da formulare solo attraverso una attenta preparazione. Perciò dichiaro subito, senza indugio, che nessuno dei principi di associazione qui enumerati mi pare adatto ad essere la base dello Stato visto come prodotto della natura umana. Razza, religione, convinzione politica, interessi e occupazioni, nessuno di questi principi è quello giusto per essere il fondamento della grande pace, mentre l’unica base affidabile è il carattere degli individui, le loro qualità etiche (e non le loro “convinzioni”).

Le persone di carattere, i buoni e i pacifici, appartengono per natura allo stesso gruppo, formano l'invisibile Civitas dei, la Comunità che è al di sopra gli Stati, al di sopra delle nazioni, sdelle confessioni e dei partiti. I legami che si intrecciano fra i caratteri, scaturiti dalla simpatia, sono più potenti di quelli provenienti da costumi, educazione, religione, dal cosiddetto sangue e da tutti gli altri. Non sarò mille volte più propenso a fare causa comune con un cinese che ritengo affidabile e di indole buona che con un europeo falso ed egoista? A cosa serve che il bianco abbia le stesse mie abitudini, abbia fatto gli stessi studi e appartenga alla stessa confessione religiosa? E cosa importa che l’uomo giallo viva in maniera del tutto diversa e pensi, si vesta e mangi in altro modo da me? Il muro che ci separa non è forse più sottile, non ci capiamo forse meglio che con qualsiasi altro che, solo esternamente, ha così tanto in comune con me?

Poiché ogni lotta è immorale a meno che non sia contro qualcosa di immorale, così non si deve mai combattere un partito politico in quanto tale ma solo quello che vi è di scorretto in esso. E se ciò avviene, la lotta dei partiti non è più un conflitto fra partiti ma una lotta di gruppi che non sono più schierati con i partiti, ma che debbono essere definiti attraverso i loro obiettivi politici. In altre parole: la posizione morale significherebbe lo scioglimento dei partiti stessi. O si dovrebbe giungere alla formazione di nuovi partiti che si distinguerebbero fra loro per le posizioni morali. In questo caso si giungerebbe alle vere contrapposizioni che devono trovare soluzione su un livello più elevato.

La nostra idea di Stato è: unione per la protezione di tutte le necessità comuni della vita. Con questa definizione resta ancora da decidere se i confini dello Stato, cioè l'area dei cittadini che ne fanno parte, debbano essere determinati dalla comune convivenza in un dato spazio fisico, o sulla base di un altro principio. Quindi non solo i Paesi o Gruppi di Paesi meritano la qualifica di Stato; tale appellativo potrebbe essere dato anche ad altre organizzazioni, purché servano alla protezione comune. La Chiesa, ad esempio, non sembra servire a questo scopo, quindi non dobbiamo parlare della Chiesa come Stato, anche se può accadere che essa si sviluppi in quanto tale, incorporando lo scopo dello Stato e fondendolo con i suoi principi.

Un’altra possibilità di formazione di uno Stato, fuori dal criterio del principio territoriale, potrebbe essere l'associazione sulla base delle convinzioni politiche. Questo sembra, a prima vista, un processo assai naturale poiché la politica è ciò che forma lo Stato. Come già detto, i principi relativi a ciò si trovano nello Stato dei partiti, ma sono solo principi, perché, in genere, i Partiti non sono Stati nello Stato. Mancano a loro i tipici mezzi del potere che sono necessari per la protezione interna ed esterna, e che sono riservati al paese e al suo governo. Se un partito sapesse giungere al potere assoluto, o attraverso sotterfugi o persuadendo una parte dell’esercito o della polizia, allora le tensioni si trasformerebbero presto in rivoluzione e guerra civile. Per quanto spaventosi possano essere tali eventi, si deve comunque notare che essi tendono ad essere incomparabilmente meno costosi e sanguinosi delle guerre tra Stati territorialmente separati, cioè tra paesi ostili tra loro. Ciò sottolinea ancora una volta il fatto che tendenze opposte, quando esistono, non dovrebbero essere separate spazialmente l'una dall'altra, ma che gli avversari dovrebbero mescolarsi tra di loro.
Allora, quando dovesse sopraggiungere l’inevitabile accomodamento, i disastri che ne conseguono saranno di portata più limitata. Se gli avversari e i seguaci della schiavitù negli Stati Uniti non fossero stati separati anche territorialmente in Stati del Sud e del Nord, la guerra civile non avrebbe assunto dimensioni così devastanti.

Immaginiamo che la divisione per convinzioni politiche prenda il posto della divisione in Stati territoriali. Allora non ci sarebbero Paesi nel senso usuale del termine ma ci sarebbero Organizzazioni politiche i cui membri sarebbero sparsi in tutto il mondo. Ognuna di queste comunità invisibili potrebbe avere le proprie leggi, i propri costumi, la propria amministrazione della giustizia e di gestione del potere, e anche la propria forma di Stato. Potrebbero esistere repubbliche e monarchie invisibili, ma i Presidenti e Principi non governerebbero su territori ma solo su persone che apparterrebbero volontariamente al loro Stato. E poiché le convinzioni di un singolo possono anche cambiare, allora esisterebbe, in linea di principio, la possibilità di passare da una organizzazione ad un’altra, in qualsiasi momento.
Una situazione del genere potrebbe chiaramente valere solo se ci fossero anche regole speciali per quanto concerne le relazioni reciproche tra i membri delle diverse organizzazioni (non dico intenzionalmente: tra le organizzazioni stesse). Ci si dovrebbe pertanto accordare su una certa base minima di diritto sovrastatale o interstatale e, se si vuole, si può dire che ciò porterebbe alla costituzione di un unico Stato mondiale. Ma i confini fra uno Stato globale e molti Stati piccoli, legati fra loro da regole, sono sempre fluidi, e non importa il nome che si dà alla cosa. Lo “Stato mondiale” a cui si pensa sarebbe molto leggero, sarebbe costituito da regole relativamente molto semplici che probabilmente si limiterebbero a funzioni arbitrali. Per portare un esempio, si potrebbe stabilire che le controversie fra due membri di comunità diverse sarebbero risolte da un tribunale formato da vari membri di altri comunità che dovrebbero prendersi cura anche, grazie ad una agenzia comune di polizia, di controllare l’attuazione delle decisioni.

Non dovrebbe essere difficile redigere tali statuti mondiali (o meglio metterli in atto, perché redigerli è sempre facile). Infatti, se si constata con quale piccolo sforzo di regole di diritto internazionale, anche oggi, gli Stati possono discretamente coesistere in tempi normali, allora si può vedere che tali regole, molto generali, hanno la tendenza a funzionare, per così dire, da sole, in quanto grande è l’interesse di tutti che esse vi siano.
Queste regole possono essere un ostacolo temporaneo o apparire cattive solo a piccoli gruppi o a individui, che, ad ogni modo, avrebbero contro la volontà della stragrande maggioranza, e alla quale dovrebbero inclinarsi.

Il prerequisito essenziale è comunque, ancora una volta, che i membri dei gruppi vivano assieme mescolati, perché non appena subentra una divisione territoriale, sorgono nuovi interessi e nuove complicazioni. L’efficacia delle nostre leggi penali si basa anche sul fatto che i criminali sono individui che vivono da soli o in piccoli gruppi all’interno della società umana; se, ad esempio, si unissero a decine di migliaia per creare una loro propria città, allora non basterebbero leggi e misure ordinarie per affrontare la cosa. Con la separazione territoriale, di solito, si elimina o si riduce la necessità di prendere in considerazione la realtà altrui. Gli interessi vengono isolati e ogni gruppo può perseguire i propri interessi, o almeno crede di poterlo fare, mentre, in realtà, prima o poi si verifica un contatto con gli altri, e da questo si sviluppa presto un contrasto ostile.

I conflitti fra Stati che tormentano attualmente l’umanità nascono appunto dal fatto che si tratta di Paesi territoriali, separati da frontiere territoriali. Succede così che ogni Stato crede di poter dire: “Questo è un affare interno, e nessuno deve intromettersi”. Se al posto delle frontiere territoriali ci fossero semplici separazioni interne, di tipo spirituale, allora non ci sarebbero più affari “interni” o, il che equivarrebbe alla stessa cosa, tutti gli affari sarebbero “interni”. Gli interessi non si lascerebbero isolare, coloro che la pensano in maniera diversa sarebbero sempre lì vicini; quello che facciamo li riguarderebbe sempre, in qualche modo. Tutti i progetti dovrebbero essere formulati in maniera tale da prendere in considerazione tutti gli interessi in gioco, e le diversità non degenererebbero in conflitti fra i popoli.

L’aspetto innaturale dei nostri Stati sono le loro frontiere. Ogni confine territoriale è artificiale perché non c’è mai un motivo ragionevole per cui da un lato dovrebbe essere benvenuto ciò che dall’altro lato è condannabile. All’origine, quando i mezzi di trasporto erano carenti, le popolazioni erano separate dai mari e dalle catene montuose, non potevano aggregarsi e quindi non potevano accordarsi fra di loro. Allora si pensava che le frontiere dovevano esistere, visto che c’erano anche in natura, e furono introdotte linee divisorie là dove non ve ne erano. Si è imparato a superare montagne e mari, ma pare una cosa impossibile andare al di là delle frontiere create dagli umani.

Attualmente si usa spesso lagnarsi in maniera astratta sulla presenza di confini, soprattutto economici. Ma forse non si vede quanto profonda sia la fonte del male; esso si trova nella natura stessa degli Stati. E questo va cambiato. Solo allora potranno scomparire le frontiere.

Le frontiere fra paesi non potranno essere cancellati da semplici accordi tra Stati, perché esse sono il reale e massimo prodotto dell’agire umano. Quando noi passiamo dall’Italia alla Svizzera, dalla Germania alla Francia, ci accorgiamo che da questo lato della frontiera le cose sono davvero diverse rispetto all’altro lato. Le frontiere possono cadere, naturalmente, se queste differenze spariranno, così come la linea di divisione fra due colori di una superficie non esiste più quando entrambe le parti diventano dello stesso colore.

Bisogna essere ignoranti e poveri d'immaginazione se si crede che, attraverso questa mescolanza, la colorita molteplicità della terra, che io peraltro lodo, potrebbe trasformarsi in monotonia. Al contrario, con il mescolarsi delle persone si producono sempre nuove diversità, e sono queste diversità che sono importanti per il progresso culturale. Un popolo che vuole riprodursi sulla base solo di sé stesso rinuncia a un fattore importante di rinnovamento e di superamento della propria monotonia. Grazie al mescolarsi, le diversità individuali si crescono, ma la distribuzione territoriale diventa più equilibrata. Una distribuzione equilibrata di persone sul territorio, con possibili grandi diversità individuali, non significa monotonia, ma il massimo della varietà.

La questione era: secondo quale principio dovrebbero associarsi le persone in una comunità per essere in grado di proteggersi contro nemici esterni, visto che il singolo non può provvedere da solo, e sono necessarie le forze congiunte di molti? Che il fattore spazio-territoriale debba comunque avere un ruolo risulta già dal concetto di nemico “esterno”; “l’associazione” dovrà quindi riferirsi sempre anche al territorio. La questione è quindi: secondo quale principio le persone dovrebbero vivere assieme? Sarebbe forse bene che formino uno Stato tutti coloro che hanno fissato casualmente la loro residenza in un distretto geograficamente definito (penisola, spazio fra due catene montuose ecc.), o sarebbe bene che, in un territorio del genere, si stabiliscano solo coloro che, in virtù di un altro principio comune, già si “appartengono” tra di loro? Quando è che le persone si “appartengono” naturalmente? Quando sono tali da capirsi, tollerarsi e sostenersi a vicenda. E questo quando avviene? Quando sostengono tutti la stessa idea? Forse, ma se l’idea è proprio quella di appartenenza, allora sono coinvolti nel tragico circolo del Nazionalismo insensato. Ci sono davvero idee profonde che uniscono le persone? Le Religioni? Anche loro non hanno superato la prova, infatti, hanno sì unito i credenti, ma hanno anche fomentato le guerre più sanguinose contro i non-credenti. Anche il Cristianesimo non ha saputo soddisfare la grande speranza di Dante e Campanella: non hanno unito l’umanità europea.

Attualmente si incoraggia il popolo (il “sangue”) a diventare l’oggetto di una venerazione religiosa, si attizza il fuoco sacro per alimentare la fiamma nazionale, e questa è una dichiarazione di guerra contro qualsiasi unione dei popoli attraverso le religioni. Se questi tentativi avessero successo, gli antagonismi nazionali sarebbero sempre anche religiosi, e l’idea di una religione sovranazionale sarebbe derisa così come quella di una umanità che associa tra loro i popoli.
A questa idea di umanità è mai stata data la possibilità di esprimere tutta la sua forza? Se lo si facesse, non ci sarebbe bisogno di cercare un’ulteriore stella guida. Questo perché l’idea di umanità è, al tempo stesso, il pensiero morale e l’unico vero nucleo di tutte le Religione. Alla nostra domanda “Quali individui fanno parte di un insieme?” dobbiamo rispondere semplicemente “le persone buone”. La buona volontà è l’unica garanzia per la comprensione e promozione reciproca. E quando le persone di buona volontà (homines bonae voluntatis) lottano contro tutti gli altri che non vogliono la pace, questa è l'unica lotta che ha in sé la sua giustificazione, l’unica per la quale il filosofo può sventolare la bandiera, l’unico combattimento ragionevole e naturale. In sostanza, solo la buona volontà può essere il principio dell’associazione. Lo Stato così formato è la vera civitas dei, e tutte le altre forme di Stati, che si basano su principi diversi, sono civitates diaboli.

Desiderare la separazione e l’isolamento impedisce lo sviluppo di una condizione di coesistenza pacifica, impedisce il nascere di una morale dei popoli. La morale è sempre il prodotto di una vita in comune. Se gli individui vivessero completamente separati e chiusi fra di loro non ci sarebbe il bene e il male nell’agire, ma solo l’utile e il dannoso, nel senso più grossolano; non ci sarebbe bontà o giustizia né rispetto, nessuno sarebbe toccato dall’agire dell'individuo solitario perché nessuno ne saprebbe nulla. Chi vuole darsi da sé la sua legge deve isolarsi fisicamente e crearsi delle barriere. Nel caso degli Stati ciò si chiama “autarchia”. L’autarchia impedisce la morale interstatale. Affinché la morale possa svilupparsi è necessario che ogni singolo essere entri in contatto, quotidianamente, con molti altri esseri. I rapporti costanti e le azioni reciproche sono il presupposto di quei processi che portano alla formazione della coscienza, e al rispetto delle regole della convivenza.

Esiste una sola base dello Stato, vero e durevole, e questa è la moralità. Non cercate altro! Se non volete governare il mondo con la bontà e la giustizia allora non lo dovreste governare, perché sareste l’origine delle guerre e delle discordie che porterebbero alla distruzione del vostro operato.

Lo Stato difende l’individuo dai nemici esterni? Non succede invece spesso che gliene crei di nuovi? Anzi, non diventa esso stesso il nemico del singolo individuo, assumendo una posizione di potere e di coercizione? E a volte diventa così duro che l’individuo preferirebbe piuttosto essere confrontato con una maggiore insicurezza riguardo ai pericoli provenienti dall’esterno che sopportare la tirannia dello Stato che lo perseguita costantemente con le sue minacce, privandolo, in questo modo, della libertà più di quanto farebbe un nemico esterno. La restrizione della libertà è sempre presente là dove si vieta ciò che è permesso “davanti a Dio” (molte cose morali si lasciano esprimere meglio attraverso un linguaggio teologico).

È assolutamente vero che gli interessi dell’individuo, della Nazione e di tutta l’umanità alla fine convergono. Ma così come avviene che l’individuo è più felice quando si dedica agli altri e non persegue direttamente i propri fini, così è per l’umanità: essa non è servita al meglio quando facciamo tutto solo per la nazione, ma serviamo nel modo migliore la nazione quando indirizziamo lo sguardo sui fini dell’umanità.

La soppressione della libertà di coscienza deve diventare alla fine un pericolo per ogni Stato al potere. Il pericolo per esso è quello di rendersi ridicolo, e tanto più lo sarà, tanta meno paura incuterà. Il politico che vuole imporre al cittadino un determinato modo di vedere (perché è qui che l'opinione pubblica perde un po' il controllo) è in effetti una figura comica. Chi è lui per pretendere di decidere quale sia, fra tutte, l’unica vera filosofia?
Nessun sovrano dovrebbe infatti potersi permettere di dire ai suoi sudditi “Non sono sicuro che l’ideologia il cui rispetto io pretendo da voi sia giusta, però esigo che voi vi conformiate ad essa”.

L’esperienza insegna che uno Stato può continuare ad andare avanti per un po' di tempo anche se a nessun cittadino è permesso di esprimere una opinione diversa da quella del governo; ma è, ad ogni modo, un colosso con i piedi di argilla, perché uno Stato che coscientemente rinuncia all’intelligenza dei suoi cittadini rinuncia alla sua essenza vitale.

Quando si ha l'abitudine di presentare le decisioni morali del singolo sotto la bella immagine che la sua “coscienza” si erge contro il suo egoismo e lo vince, allora anche gruppi di individui – Partiti e Stati – hanno bisogno di una coscienza se si vuole sviluppare una moralità comune (sovraindividuale). I rappresentanti dei gruppi e dei popoli che si riuniscono nei Parlamenti nazionali e internazionali dovrebbero essere la coscienza dei loro mandatari e non i portavoce del loro egoismo. Finora essi rappresentano quasi solo quest’ultimo, soprattutto nei negoziati internazionali. Hanno il mandato di difendere gli “interessi” dei loro elettori o del loro Stato; invece dovrebbero ricevere l’ordine di curare gli interessi dell’umanità, indipendentemente dal fatto che ciò possa arrecare o meno un sacrificio per il proprio popolo. Ma un diplomatico o un rappresentante del popolo sarebbe considerato un idealista incompetente se decidesse, per una volta, di parlare o votare a favore di un interesse di grado più elevato che non fosse quello del proprio popolo. Di certo non recherebbe alcun danno in quanto, alla fine, si trarrebbe vantaggio dall’armonia che scaturirebbe da questi principi superiori.
È maturalmente difficile guardare al bene dell'insieme, e solo a questo, quando si è stati educati in una determinata cerchia o gruppo di persone, e ci si trova ad affrontare ogni volta la richiesta di non contraddire certe opinioni e di servire solo un certo bene particolare.

Dovrebbe pertanto esistere una scuola internazionale per diplomatici che non dovrebbe essere sotto la direzione di un unico Stato. Lì gli studenti studierebbero in maniera obiettiva ed equilibrata gli ideali e le aspirazioni di tutti i popoli. Ogni Paese dovrebbe essere sointo ad inviarvi i migliori talenti, e in questa scuola essi sarebbero lontani, per anni, da qualsiasi influsso di parte, per esempio, vivendo su una bella e distante isola. E solo coloro che completassero questa scuola dovrebbero più tardi essere nominati rappresentanti diplomatici del proprio Paese, e la loro capacità sarebbe riconosciuta espressamente dal Foro internazionale della scuola. E si prenderebbe in considerazione non solo il sapere, ma anche e soprattutto il carattere, l’amore per l’umanità e l’incorruttibilità del giudizio. Sarei addirittura dell’avviso che non solo i Diplomatici che rappresentano il popolo all’estero dovrebbero frequentare questa scuola, ma anche i Governanti che sono alla testa del loro Paese. Infatti credo che solo colui che conosce i bisogni di tutti i Popoli e li comprende può guidare e proteggere bene un popolo.

Non si può pretendere di ricevere, in genere, tale intima e profonda comprensione dalla studio della Storia come è insegnata nelle scuole e nelle Università. Gli storici soccombono in maniera terribile al dominio dei pregiudizi. Chi è abituato a respirare l'atmosfera pura della matematica e delle scienze naturali, deve essere scosso da tale impressione quando getta la sguardo alle opere di quasi tutti gli storici che trattano questioni della loro epoca o del loro popolo. Grandi figure come Ranke e Gibbon sono rare. Molti sono, quasi sempre, più politici che storici. Basta guardare ad un uomo come Treitschke!

Per questo motivo dovrebbero esistere anche Università Internazionali dove la Storia, la Letteratura e soprattutto il Diritto dovrebbero essere insegnati con vera obiettività. Grazie a Dio, la medicina, le scienze naturali e la matematica sono intrinsecamente già oggettive e non hanno bisogno di misure di protezione.

 


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