Alessandra Pigni

Sul burnout

(2016)

 



Nota

Un testo illuminante su cos'è il burnout e sul fatto che il modo di interagire tra le persone all'interno dell'attuale società lo generi in maniera costante e preoccupante.

 


 

Il burnout è stato definito come il risultato di un modo disfunzionale di lavorare. Non si tratta tanto di "quanto" lavoriamo, ma di "come" lavoriamo, la qualità delle relazioni, la cura e l'umanità che permeano i nostri luoghi di lavoro.

Per esempio, A. è entrata nel settore umanitario con grandi speranze e grandi aspettative dopo una carriera nel settore commerciale, volto alla ricerca del profitto aziendale.
In teoria, tutto sarebbe stato diverso nel mondo no-profit: brave persone, lavoro ricco di significato, la possibilità di fare la differenza. Quando ha preparato la valigia del ritorno dopo aver lavorato ad Haiti, in seguito al devastante terremoto del 2010, il suo idealismo e le sue speranze sono state distrutte dalla realtà dell'industria dell'aiuto. Esausta e scoraggiata, le ci sono voluti oltre due anni per rimettersi in piedi. Non è necessario che ci voglia così tanto tempo, ma per sapere come affrontare il burnout dobbiamo capire sia la sindrome che il motivo per cui così tanti, in servizio sul campo, ne cadono preda.

J., un umanitario e scrittore molto rispettato, con decenni di lavoro in tutto il mondo e anche negli Stati Uniti, ha condiviso la sua storia. Quando, superando i continenti, ci siamo collegati via Skype a discutere le insidie del lavoro nel settore umanitario, abbiamo letto un passaggio del suo libro che dovrebbe restare impresso nella mente di ogni operatore, non per scoraggiarci, ma per farci vedere dove sono i pericoli:

“La parte più difficile di questo lavoro non sono le cose terribili che vedi sul campo. Non è assistere ripetutamente alla sofferenza degli altri ed essere in grado di offrire poco come rimedio, né il trattare con funzionari distrettuali corrotti, o ammalarsi, o passare troppo tempo lontani dalla propria famiglia, per quanto queste cose possano comportare delle difficoltà. No, la parte più difficile di questo lavoro è semplicemente avere a che fare, giorno dopo giorno, con il peso schiacciante di un sistema che fondamentalmente manca di incentivi reali per fare bene ciò che sostiene essere il suo scopo principale. E per lo stesso motivo, la parte più pericolosa di questo lavoro non sono i militanti armati, o gli autisti spericolati, o gli insetti che ti succhiano il sangue. No, la parte più pericolosa di questo lavoro è il mondo umanitario stesso. Ti mangia l'anima se glielo lasci fare.” [1]

Oggi avere l'anima divorata equivale a cadere nel burnout. Ma, quando parliamo di burnout, di cosa stiamo davvero parlando? Non c’è una definizione condivisa di burnout. Se si cerca la sindrome da burnout nel DSM5, The Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), la bibbia psichiatrica, per così dire, non la troverete. L’omissione ha senso: il burnout riguarda la sofferenza esistenziale, non è una malattia.

Ma se date un'occhiata all'ICD-10, la International Statistical Classificationof Diseases and Related Health Problems (Classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi di salute correlati), un elenco compilato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, il burnout è classificato sotto i problemi relativi alla gestione della vita, descritto come uno stato di esaurimento vitale. Il burnout può essere raffigurato come una condizione che colpisce il corpo e la mente a causa di un modo di lavorare disfunzionale, unito alla perdita di scopo. Quando si mettono tutte le proprie uova in un cesto e quel cesto è rotto, può verificarsi il burnout.

Lo psichiatra Hans Freudenberger ha introdotto il termine "burnout" nel 1974 per descrivere il graduale esaurimento emotivo, la perdita di motivazione e la riduzione dell'impegno tra i volontari della St. Mark's Free Clinic nell'East Village di New York. Da che erano pieni di spirito e motivati, questi volontari erano diventati esausti, cinici e delusi.

Freudenberger "ha notato che il suo lavoro, che una volta era così gratificante, era arrivato a lasciarlo affaticato e frustrato. Poi notò che molti dei medici intorno a lui si erano, col tempo, trasformati in cinici depressivi. Come risultato, quei medici trattavano sempre più i loro pazienti con freddezza e indifferenza” [2].
Freudenberger prese in prestito il termine burnout dal mondo delle droghe illegali, dove ci si riferiva colloquialmente agli effetti devastanti dell’abuso cronico di stupefacenti. Per molti di noi, le nostre droghe preferite sono il sovra-lavoro, l'impegno eccessivo e il perfezionismo. Il lavoro di aiuto umanitario, i disastri e la guerra possono creare una forte dipendenza.

L'esperta di burnout Christina Maslach definisce il burnout come "una sindrome di esaurimento emotivo, una spersonalizzazione e una ridotta realizzazione personale che può verificarsi tra gli individui che operano in mezzo alle persone espletando una qualche funzione" [3].

In altre parole, ci sentiamo prosciugati, non ci curiamo più riguardo a come operiamo e diventiamo inefficaci sul lavoro. Il burnout "è uno stato di esaurimento in cui si è cinici sul valore della propria occupazione e si dubita della propria capacità di rendimento”[4]. Ci bruciamo per il troppo lavoro e siamo disillusi da una mancata corrispondenza tra ciò che pensavamo riguardo alla nostra attività (il fare la differenza!) e quello che facciamo in realtà (scrivere rapporti che nessuno legge).

Il burnout si riduce a uno stato di esaurimento fisico, mentale ed emotivo, esaurimento e frustrazione dovuti al votarsi a uno stile di vita che non produce l'appagamento e le ricompense attese. Siamo arrivati alla fine di un determinato cammino ma non l'abbiamo capito. Una volta piene di passione e ideali, le persone che soffrono di burnout sentono un’allergia verso il proprio lavoro e lottano per trovare nuovi orizzonti. Il burnout è un campanello d'allarme.

Il burnout può assomigliare molto alla depressione, ma a differenza della depressione è situazionale, cioè è legato a un'area specifica della nostra vita che è mentalmente, fisicamente ed emotivamente spossante. Ma attenzione: il burnout non nasce in isolamento. Infatti, mentre i tratti personali come il perfezionismo ci rendono più inclini al burnout, la radice del problema generalmente risiede in un ambiente (luogo di lavoro) non agevolante, se non addirittura tossico, un ambiente (il posto dove si lavora, la comunità circostante) dove lunghe ore di presenza, gratificazioni inadeguate e mancanza di civiltà e rispetto sono pratiche diffuse.

Anche se pervasivo nella nostra era digitale, il burnout è sicuramente una "sindrome degli operatori umanitari". La maggior parte di coloro che sono colpiti dal burnout erano una volta idealisti, che cercavano un lavoro ricco di significato, impegnati nella loro comunità o che operavano in qualche luogo con la speranza di fare la differenza.

Il burnout si insinua quando perdi il significato, quando non senti più che quello che fai è importante; quando sperimenti una dissonanza tra i tuoi valori, ciò in cui credi, e ciò che ti viene chiesto di fare; e quando c'è un divario tra ciò che la tua organizzazione predica e ciò che effettivamente fa. Il burnout è alimentato da una cultura in cui noi contiamo sulla base di quanto riusciamo a fare, o nella misura in cui siamo occupati a fare qualcosa.

Siamo tutti a rischio di burnout quando permettiamo a questa cultura di prendere il sopravvento dappertutto, lasciando che solo ciò che facciamo definisca chi siamo.
Evitare il burnout significa opporre resistenza alla cultura dello stress, del superlavoro, della produzione e del consumismo.

Evitare il burnout è un compito personale e politico allo stesso tempo.

 


 

Riferimenti

[1] J., Letters Left Unsent, Evil Genius Publishing, 2014, p. 101.

[2] Ulrich Kraft, (2006) “Burned Out,” in Scientific American, giugno/luglio 2006 pp. 28–33.

[3] Wilmar B. Schaufeli, Michael P. Leiter e Christina Maslach Burnout: “35 years of research and practice”, in Career Development International, Vol. 14 No. 3, 2009, pp. 204-220.

[4] Ibidem, Wilmar B. Schaufeli, Michael P. Leiter, and Christina Maslach Burnout: “35 years of research and practice”, in Career Development International Vol. 14 No. 3, 2009 pp. 204-220.

 


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