Fabio Massimo Nicosia

Che cosa non va nello « Stato di diritto »

(2016)

 


 

Nota

Una critica serrata e acuta (rivolta nello specifico ai radicali italiani ma valida in generale) del cosiddetto "Stato di diritto" e la proposta di considerare lo stato solo come una impresa di servizi in concorrenza con altre imprese. Solo così la volontà degli individui associati verrà pienamente rispettata e il loro consenso sarà libero e responsabile.

 


 

Tra molti radicali vige il culto del mito, per dirla con Cassirer, dello “Stato di diritto”. Tante volte si ha l’impressione che essi amino l’espressione, dato che la utilizzano di continuo, e di continuo, e di continuo, senza mai spiegare in che cosa consisterebbe mai detto “Stato di diritto”.

In realtà, quando i radicali vanno all’estero, o si propongono all’estero, agitando lo spettro transnazionale, utilizzano un’espressione diversa, l’inglese Rule of Law. Senonché Rule of Law non è la traduzione di Stato di diritto, ma di governo della Legge, e sono due concetti molto diversi, se non addirittura antitetici.

Lo “Stato di diritto” rimanda semmai al concetto tedesco di Staatrecht, ma si tratta di nozione opposta rispetto a quella di Rule of Law: mentre il primo evoca l’idea di uno Stato legislatore, che fa tutte le leggi che vuole, anche le più stupide, in quanto suprema fonte del diritto, il secondo ci racconta di un governo intrinsecamente limitato da una legge superiore, che è in buona parte consuetudinaria e giurisprudenziale, ispirata a principi superiori non modificabili dal legislatore: il primo esprime l’idea di legge uguale per tutti, che è abominio, l’altro l’idea di eguaglianza di fronte alla legge, che è libertà.

Lo Stato di diritto pretende che il diritto posto da chi governa limiti chi governa, il che è un assurdo logico: se io sono fonte della legge che posso modificare, non sono vincolato dalla legge che posso modificare, dato che posso modificarla a piacere mio, sia pure nei limiti costituzionali; e tuttavia posso sempre modificare anche la costituzione, sicché è “Stato di diritto” anche quello che fa fuori la propria costituzione, sia pure nell’apparente rispetto di determinate procedure.

Apparente, dato che il governante, oltre a potere modificare la legge, la può impunemente violare in sede di arcana imperii, e quindi anche sotto tale profilo il diritto dello Stato di diritto non limita affatto il potere dello Stato di darsi il diritto che vuole e ritiene più opportuno in nome della ragion di Stato.

Non può esserci stato di diritto, questa volta, come Leoni, con la minuscola, se non ci sono contrappesi; si dirà che i contrappesi sono rappresentati dai poteri divisi della divisione dei poteri, e tuttavia tale impostazione denota la cattiva lettura di Montesquieu, o incompleta, del sistema inglese, che non prevedeva poteri divisi a tavolino, che in realtà sono un cartello, un’intesa orizzontale moltiplicatrice dei reciproci poteri, ma un equilibrio spontaneo tra giurisdizione e corona, che non era stabilita a tavolino attraverso una preventiva spartizione/moltiplicazione dei poteri, ma frutto della storia.

Se, quindi, per aversi “diritto” e non abuso di dominio, occorre contrappeso, occorre che il contrappeso sia fuori dallo Stato di diritto, ossia occorre calare lo Stato (di diritto o meno) all’interno della teoria della concorrenza, sicché lo Stato viene controbilanciato perché ammette competitors nelle proprie funzioni, e, in base alle funzioni, si determinerà la dimensione di scala ottimale dell’istituzione di riferimento.

Finché lo Stato sarà monopolista della forza e delle qualificazioni di legittimità sul territorio, esso sarà poco distinguibile, proprio dal punto di vista tecnico, da una mafia riscossiva ed estorsiva vera e propria, solo molto più intrusiva e grande sul territorio, sul quale costruisce l’”omertà” dei cittadini che lo sostengono passivamente.

Se invece si entra nell’ordine di idee, conforme del resto al diritto comunitario europeo, che lo Stato deve essere impresa di servizi tra imprese di servizi, allora lo Stato cessa di essere tale, diviene solo sede di valorizzazione finanziaria del suo immane patrimonio a vantaggio dei cittadini, e allora avremo davvero concorrenza tra istituzioni (Laski), e lo Stato dovrà meritarsi il consenso proponendosi come soggetto compresente con gli altri, solo in grado di svolgere alcune funzioni che altri non hanno la dimensione di scala per potere svolgere.

A questo punto, ripetiamo, non si tratterebbe più di uno “Stato”, ma di qualcosa di molto diverso, destinato ad essere riassorbito dal mercato e dalla comunità: solo in tal caso, allora, potremmo parlare di bilanciamento dei poteri, dato che i poteri, per bilanciarsi reciprocamente, devono appartenere a soggetti diversi – principio antitrust applicato allo Stato - e non concentrarsi fittiziamente nello stesso soggetto, come avviene nella grande mistificazione della divisione dei poteri (che, come diceva Benjamin Constant, è moltiplicazione dei poteri), che in realtà è cartello stabilizzato dalla legge dei diversi poteri autoritari.

I radicali che hanno tanta dimestichezza con la formula dello “stato di diritto”, variamente declinato nelle maiuscole, non danno mostra di avere alcuna consapevolezza di tutto ciò, e quindi rischiano di annegare nel loro vaniloquio: “Stato di diritto, stato di diritto, Stato di diritto”, e via all'infinito.

I problemi, invece, come si vede, sono molto più seri, che non il ripetere slogan a pappagallo…

 


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