Friedrich Engels

La dinamica storica della società capitalista

(1880)

 



Nota

In questo estratto dall'Antidühring, integrato dalle aggiunte introdotte nell'opuscolo L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza, Engels mette in luce varie questioni sociali ed economiche che sono state poi deformate da politici liberali e socialisti. Per Engels, la dinamica capitalista porta alla formazione di trust che assommano tutto il potere economico di un ramo della produzione. Questa dinamica termina quando il super trust Stato, espressione massima della forma sociale capitalistica, concentra in sé tutti gli strumenti della produzione. A quel punto esistono le condizioni economiche (massima produzione) e sociali (fine della divisione in classi) per il passaggio dal regno della necessità (lo stato capitalistico) al regno della libertà (la società degli individui).

L'errore di colossale ingenuità da parte di Engels è di aver ritenuto possibile l'estinzione dello stato dopo che esso aveva riunito in sé tutto il potere politico ed economico. L'inganno perpetrato da liberali e socialisti è stato quello di aver cancellato del tutto l'aspetto dell'estinzione dello stato, che pure è un pilastro della visione di Engels (e di Marx). Questo inganno è servito agli uni (i liberali) per presentarsi come i fautori dello stato minimo, e in effetti l'oligarchia liberale non ha bisogno di un grande apparato al suo servizio; e agli altri (i socialisti) per spacciare l'instaurazione del cosiddetto stato proletario come la realizzazione del socialismo. Purtroppo questo imbroglio ha funzionato e funziona ancora ai giorni nostri per moltissime persone.

 


 

Nelle crisi la contraddizione tra produzione sociale e appropriazione capitalistica perviene allo scoppio violento. La circolazione delle merci è momentaneamente annientata; il mezzo della circolazione, il denaro, diventa un ostacolo per la circolazione; tutte le leggi della produzione e della circolazione delle merci vengono sovvertite. La collisione economica raggiunge il suo culmine. Il modo della produzione si ribella contro il modo dello scambio, le forze produttive si ribellano contro il modo di produzione che esse hanno già superato.

Il fatto che l'organizzazione sociale della produzione nell'interno della fabbrica ha raggiunto il punto in cui diventa incompatibile con il disordine della produzione esistente nella società accanto ad essa e al di sopra di essa, questo fatto viene reso tangibile agli stessi capitalisti dalla potente concentrazione dei capitali che ha luogo durante le crisi, mediante la rovina di un gran numero di grandi capitalisti e di un numero ancora maggiore di piccoli capitalisti. Tutto il meccanismo del modo di produzione capitalistico si arresta sotto la pressione delle forze produttive che esso stesso produce. Esso non riesce più a trasformare in capitale tutta questa massa di mezzi di produzione: essi giacciono inoperosi e, precisamente per questa ragione, anche l'esercito industriale di riserva è costretto a restare inoperoso. Mezzi di produzione, mezzi di sussistenza, operai disponibili, tutti gli elementi della produzione e della ricchezza generale, esistono in sovrabbondanza. Ma "la sovrabbondanza diventa fonte di miseria e penuria" [Charles Fourier, Le nouveau monde industriel et sociétaire, 1829] perché è precisamente essa che ostacola la trasformazione dei mezzi di produzione e di sussistenza in capitale. Infatti nella società capitalistica i mezzi di produzione non possono entrare in azione se prima non si sono trasformati in capitale, in mezzi per lo sfruttamento della forza-lavoro umana. La necessità che i mezzi di produzione e di sussistenza assumano il carattere di capitale si erge come uno spettro tra essi e gli operai. Essa sola impedisce il contatto tra le leve reali e le leve personali della produzione; essa sola proibisce ai mezzi di produzione di funzionare e agli operai di lavorare e di vivere. Da una parte dunque viene conclamata la incapacità del modo di produzione capitalistico di continuare a dirigere queste forze produttive. Dall'altra queste stesse forze produttive spingono con forza sempre crescente alla soppressione della contraddizione, alla propria emancipazione dal loro carattere di capitale, all'effettivo riconoscimento del loro carattere di forze produttive sociali.

È questa reazione al proprio carattere di capitale delle forze produttive nel loro rigoglioso sviluppo, è questa progressiva spinta a far riconoscere la propria natura sociale, ciò che obbliga la stessa classe capitalistica a trattare sempre più come sociali queste forze produttive, nella misura in cui è possibile, in generale, sul piano dei rapporti capitalistici. Tanto il periodo di grande prosperità nell'industria con la sua illimitata inflazione creditizia, quanto lo stesso crac con la rovina di grandi imprese capitalistiche, spingono a quella forma di socializzazione di masse considerevolmente grandi di mezzi di produzione, che incontriamo nelle diverse specie di società anonime. Molti di questi mezzi di produzione e di scambio sono sin dal principio così enormi da escludere, come ad esempio avviene nelle strade ferrate, ogni altra forma di sfruttamento capitalistico. Ad un certo grado di sviluppo, neanche questa forma è più sufficiente. I grandi produttori nazionali di uno stesso ramo di produzione industriale si riuniscono in un « trust », in una associazione avente lo scopo di regolare la produzione; essi determinano la quantità totale da produrre, se la ripartiscono tra di loro ed impongono così il prezzo di vendita stabilito in precedenza. Ma poiché tali trust, quando gli affari cominciano ad andare male, per lo più si dissolvono, proprio per questa ragione essi spingono ad una forma ancora più concentrata di socializzazione: tutto il ramo di industria di trasforma in una unica società anonima; la concorrenza nazionale cede il posto al monopolio nazionale di questa unica società; così accadde già nel 1890 con la produzione inglese degli alcali che ora, dopo la fusione di tutte e 48 le grandi fabbriche, viene esercitata da un’unica società con direzione unica e con un capitale di 120 milioni di marchi.

Nei trust la libera concorrenza si trasforma in monopolio, la produzione, priva di un piano, della società capitalistica capitola davanti alla produzione, secondo un piano, dell’irrompente società socialista. Certo in un primo tempo questo avviene ancora a tutto vantaggio dei capitalisti. Ma qui lo sfruttamento diventa così tangibile da dover necessariamente crollare. Nessun popolo sopporterebbe una produzione diretta da trust, uno sfruttamento così scoperto della collettività per opera di una piccola banda di tagliatori di cedole.

In un modo o nell’altro, con trust o senza trust, una cosa è certa: che il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve assumerne la direzione [1]. La necessità della trasformazione in proprietà statale si manifesta anzitutto nei grandi organismi di comunicazione: poste, telegrafi, ferrovie.

Se le crisi hanno rivelato l'incapacità della borghesia a dirigere ulteriormente le moderne forze produttive, la trasformazione dei grandi organismi di produzione e di traffico in società anonime e in proprietà statale mostra che la borghesia non è indispensabile per il raggiungimento di questo fine. Tutte le funzioni sociali del capitalista sono oggi compiute da impiegati salariati. Il capitalista non ha più nessuna attività sociale che non sia l'intascar rendite, il tagliar cedole e il giocare in borsa, dove i capitalisti si spogliano a vicenda dei loro capitali. Se il modo di produzione capitalistico ha cominciato col soppiantare gli operai, oggi esso soppianta i capitalisti e li relega, precisamente come gli operai, tra la popolazione superflua, anche se in un primo tempo non li relega tra l'esercito industriale di riserva.

Ma né la traformazione in società anonime, né la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Nelle società anonime questo carattere è evidente. E a sua volta lo Stato moderno è l'organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze collettive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice. Ma giunto all'apice, si rovescia. La proprietà statale delle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la chiave della soluzione.

Questa soluzione può consistere solo nel fatto che si riconosca in effetti la natura sociale delle moderne forze produttive e che quindi il modo di produzione, di appropriazione e di scambio sia messo in armonia con il carattere sociale dei mezzi di produzione. E questo può accadere solo a condizione che, apertamente e senza tergiversazioni, la società si impadronisca delle forze produttive le quali si sottraggono ad ogni altra direzione che non sia quella sua. Così il carattere sociale dei mezzi di produzione e dei prodotti che oggi si volge contro gli stessi produttori, che sconvolge periodicamente il modo di produzione e di scambio e si impone con forza possente e distruttiva solo come cieca legge naturale, viene fatto valere con piena consapevolezza dai produttori e, da causa di turbamento e di sconvolgimento periodico, si trasforma nella più potente leva della produzione stessa.

Le forze socialmente attive agiscono in modo assolutamente uguale alle forze naturali: in maniera cieca, violenta, distruttiva, sino a quando non le riconosciamo e non facciamo i conti con esse. Ma una volta che le abbiamo riconosciute, che ne abbiamo compreso il modo di agire, la direzione e gli effetti, dipende solo da noi il sottometterle sempre più al nostro volere e per mezzo di esse raggiungere i nostri fini. E questo vale in modo tutto particolare per le odierne potenti forze produttive. Fino a quando ostinatamente ci rifiuteremo di intenderne la natura e il carattere, e a questa intelligenza si oppongono il modo di produzione capitalistico e i suoi sostenitori, queste forze agiranno malgrado noi e contro di noi, e, come abbiamo diffusamente esposto, ci domineranno. Ma una volta che siano comprese nella loro natura, esse, nelle mani dei produttori associati, possono essere trasformate da demoniache dominatrici in docili serve. È questa la differenza tra la forza distruttiva dell'elettricità del lampo nella tempesta e l'elettricità domata del telegrafo e della lampada ad arco; la differenza tra l'incendio e il fuoco che agisce al sevizio dell'uomo. Quando le odierne forze produttive saranno considerate in questo modo, conformemente alla loro natura finalmente conosciuta, al disordine sociale della produzione subentrerà una regolamentazione socialmente pianificata della produzione, conforme ai bisogni sia della comunità che di ogni singolo. Così il modo di appropriazione capitalistico, in cui il prodotto asservisce anzitutto chi lo produce, ma poi anche colui che se lo appropria, viene sostituito dal modo di appropriazione dei prodotti fondato sulla natura stessa dei moderni mezzi di produzione: da una parte da un'appropriazione direttamente sociale come mezzo per mantenere ed allargare la produzione, dall'altra da un'appropriazione direttamente individuale come mezzo di sussistenza e di godimento.

Il modo di produzione capitalistico, trasformando in misura sempre crescente la grande maggioranza della popolazione in proletari, crea la forza che, pena la morte, è costretta a compiere questo rivolgimento. Spingendo in misura sempre maggiore alla trasformazione dei grandi mezzi di produzione socializzati in proprietà statale, essa stessa mostra la via per il compimento di questo rivolgimento. Il proletariato si impadronisce del potere dello Stato e anzitutto trasforma i mezzi di produzione in proprietà dello Stato. Ma così sopprime se stesso come proletariato, sopprime ogni differenza di classe e ogni antagonismo di classe e sopprime anche lo Stato come Stato. La società esistita sinora, che si muove sul piano degli antagonismi di classe, aveva necessità dello Stato, cioè dell'organizzazione della classe sfruttatrice in ogni periodo, per conservare le condizioni esterne della sua produzione e quindi specialmente per tener con la forza la classe sfruttata nelle condizioni di oppressione date dal modo vigente di produzione (schiavitù, servitù della gleba, semiservitù feudale, lavoro salariato). Lo Stato era il rappresentante ufficiale di tutta la società, la sua sintesi in un corpo visibile, ma lo era in quanto era lo Stato di quella classe che per il suo tempo rappresentava, essa stessa, tutta quanta la società: nell'antichità era lo Stato dei cittadini padroni di schiavi, nel medioevo lo Stato della nobiltà feudale, nel nostro tempo lo Stato della borghesia. Ma, diventando alla fine effettivamente il rappresentante di tutta la società, si rende, esso stesso, superfluo. Non appena non ci sono più classi sociali da mantenere nell'oppressione, non appena con l'eliminazione del dominio di classe e della lotta per l'esistenza individuale fondata sul disordine della produzione sinora esistente, saranno eliminati anche le collisioni e gli eccessi che sorgono da tutto ciò, non ci sarà da reprimere più niente di ciò che rendeva necessaria una forza repressiva particolare, uno Stato. Il primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società, è ad un tempo l'ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L'intervento di una forza statale nei rapporti sociali diventa superfluo successivamente in ogni campo e poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle persone appare l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo stato non viene "abolito": esso si estingue. Questo è l'apprezzamento che deve farsi della frase "Stato popolare libero" [2], tanto quindi per la sua giustificazione temporanea in sede di agitazione, quanto per la sua definitiva insufficienza in sede scientifica; e questo è del pari l'apprezzamento che deve farsi dell'esigenza dei cosiddetti anarchici che lo Stato debba essere abolito dall'oggi al domani.

La presa di possesso di tutti i mezzi di produzione da parte della società, sin dall'apparire del modo di produzione capitalistico nella storia, è stata spesso assai sognata più o meno oscuramente sia dai singoli che da intere sette, come un ideale dell'avvenire. Ma essa poteva diventare possibile, poteva diventare una necessità storica, solo quando fossero esistite le condizioni materiali della sua attuazione. Essa, come ogni altro progresso sociale, diviene realizzabile non già per mezzo della conoscenza acquisita che l'esistenza delle classi contraddice alla giustizia, all'eguaglianza, ecc., non già per la semplice volontà di abolire queste classi, ma per mezzo di certe nuove condizioni economiche. La divisione della società in una classe che sfrutta e in una classe che è sfruttata, in una classe che domina e in una classe che è oppressa, è stata la conseguenza necessaria del precedente angusto sviluppo della produzione. Sino a quando il complessivo lavoro sociale fornisce solo un provento che supera soltanto di poco ciò che è necessario per un'esistenza stentata di tutti, sino a quando perciò il lavoro impegna tutto o quasi tutto il tempo della maggioranza dei membri della società, necessariamente la società si divide in classi. Accanto a questa grande maggioranza dedita esclusivamente al lavoro, si forma una classe emancipata dal lavoro immediatamente produttivo, la quale cura gli affari comuni della società: direzione del lavoro, affari di Stato, giustizia, scienza, arti, ecc. Alla base della divisione in classi sta quindi la legge della divisione del lavoro. Ma ciò non impedisce che questa divisione in classi non si sia effettuata mediante forza e rapina, astuzia e inganno e che la classe dominante, una volta in sella, non abbia mai mancato di consolidare il proprio dominio a spese della classe che lavora e di trasformare la direzione della società in sfruttamento delle masse.

Ma se, di conseguenza, la divisione in classi ha una certa giustificazione storica, tale giustificazione essa l'ha soltanto per un determinato intervallo di tempo, per determinate condizioni sociali. Essa si è fondata sull'insufficienza della produzione e sarà eliminata dal pieno sviluppo delle moderne forze produttive. Ed in effetti, l'abolizione delle classi sociali ha come suo presupposto un grado di sviluppo storico di cui non solo l'esperienza di questa o di quella determinata classe dominante, ma in generale l'esistenza di una classe dominante e quindi della stessa differenza di classe, è diventata un anacronismo, un vecchiume. Essa ha quindi come suo presupposto un alto grado di sviluppo della produzione nel quale l'appropriazione dei mezzi di produzione e dei prodotti, e perciò del potere politico, del monopolio della cultura e del potere spirituale da parte di una particolare classe della società non solo è diventata superflua, ma è diventata anche economicamente, politicamente e intellettualmente un ostacolo allo sviluppo. Questo punto oggi è raggiunto. Se ormai è difficile dire che il fallimento politico e intellettuale della borghesia sia ancora un segreto per essa stessa, il suo fallimento economico si ripete regolarmente ogni dieci anni. In ogni crisi la società soffoca sotto il peso delle proprie forze produttive e dei propri prodotti che essa non può utilizzare, ed è impotente davanti all'assurda contraddizione che i produttori non hanno niente da consumare perché mancano i consumatori. La forza di espansione dei mezzi di produzione strappa i legami che ad essi sono imposti dal modo di produzione capitalistico. La loro liberazione da questi legami è la sola condizione preliminare di uno sviluppo ininterrotto e costantemente accelerato delle forze produttive, e quindi di un incremento praticamente illimitato della produzione stessa. Ma non basta. L'appropriazione sociale dei mezzi di produzione elimina non solo l'ostacolo artificiale oggi esistente della produzione, ma anche la vera e propria completa distruzione di forze produttive e di prodotti, che al presente è l'immancabile campagna della produzione e che raggiunge il suo punto culminante nelle crisi. L'appropriazione sociale, eliminando l'insensato sciupio del lusso delle classi oggi dominanti e dei loro rappresentanti politici, libera inoltre a vantaggio della collettività una massa di mezzi di produzione e di prodotti. La possibilità di assicurare, per mezzo della produzione sociale, a tutti i membri della collettività un'esistenza che non solo sia completamente sufficiente dal punto di vista materiale e diventi ogni giorno più ricca, ma garantisca loro lo sviluppo e l'esercizio completamente liberi delle loro facoltà fisiche e spirituali: questa possibilità esiste ora per la prima volta, ma esiste [3].

Con la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte della società, viene eliminata la produzione di merci e con ciò il dominio del prodotto sui produttori. Il disordine all'interno della produzione sociale viene sostituita dall'organizzazione cosciente secondo un piano. La lotta per l'esistenza individuale cessa. In questo modo, in un certo senso, l'uomo si separa definitivamente dal regno degli animali e passa da condizioni di esistenza animali a condizioni di esistenza effettivamente umane. La cerchia delle condizioni di vita che circondano gli uomini e che sinora li hanno dominati passa ora sotto il dominio e il controllo degli uomini, che adesso, per la prima volta, diventano coscienti ed effettivi padroni della natura, perché, diventano padroni della loro propria organizzazione in società. Le leggi della loro attività sociale che sino allora stavano di fronte a loro come leggi di natura estranee e che li dominavano, vengono ora applicate dagli uomini con piena cognizione di causa e quindi dominate. L'organizzazione in società propria degli esseri umani, che sino ad ora stava loro di fronte come una legge elargita dalla natura e dalla storia, diventa ora la loro propria libera azione. Le forze obiettive ed estranee che sinora hanno dominato la storia passano sotto il controllo degli uomini stessi. Solo da questo momento gli esseri umani stessi faranno con piena coscienza la loro storia, solo da questo momento le cause sociali da loro poste in azione avranno prevalentemente, e in misura sempre crescente, anche gli effetti che essi hanno voluto. È questo il salto dell'umanità dal regno della necessità al regno della libertà.

 


 

Note

[1] Io dico: deve. Infatti, solo nel caso in cui i mezzi di produzione o di comunicazione si sono effettivamente sottratti al controllo delle società anonime, in cui quindi la statizzazione è diventata economicamente inevitabile, solo in questo caso essa, anche se viene compiuta dallo Stato attuale, rappresenta un successo economico, il raggiungimento di un nuovo stadio preliminare nella presa di possesso di tutte le forze produttive da parte della società. Di recente però, da quando Bismarck si è dato a statizzare, ha fatto la sua comparsa un certo socialismo falso, e qua e là perfino degenerato in una forma di compiaciuto servilismo, che dichiara senz'altro socialista ogni statizzazione, compresa quella bismarckiana. In verità se la statizzazione del tabacco fosse socialista, potremmo annoverare tra i fondatori del socialismo Napoleone e Metternich. Se lo Stato belga per motivi politici e finanziari assolutamente correnti ha costruito direttamente le sue principali strade ferrate, se Bismarck senza nessuna necessità economica ha statizzato le principali linee ferroviarie della Prussia, semplicemente per poterle dirigere e sfruttare meglio in caso di guerra, per trasformare i ferrovieri in gregge elettorale governativo e principalmente per procurarsi una nuova fonte di entrate indipendente dalle decisioni del parlamento: queste non sono state per nulla misure socialiste né dirette né indirette, né consapevoli né inconsapevoli. Altrimenti sarebbero istituzioni socialiste anche il regio commercio marittimo, la regia manifattura delle porcellane e perfino i sarti del reggimento [o magari la nazionalizzazione dei bordelli, proposta con tutta serietà da un lestofante nel quarto decennio di questo secolo, sotto Federico Guglielmo III] (nota di Friedrich Engels)

[2] Lo "Stato popolare libero" era una delle principali rivendicazioni dei socialdemocratici tedeschi degli anni 1870-1880. Questa parola d'ordine fu criticata da Marx nelle "Glosse marginali al programma del Partito operaio tedesco" ("Critica al programma di Gotha") e da Engels nella sua lettera a Bebel del 18-28 marzo 1875.

[3] Poche cifre bastano per dare un'idea approssimativa dell'enorme forza di espansione dei moderni mezzi di produzione persino sotto la pressione capitalistica. Secondo i più recenti calcoli di Giffen la ricchezza complessiva di Gran Bretagna e Irlanda ammonta in cifra tonda a:
1814 2.200 milioni di sterline = 44 milioni di marchi
1865 6.100 milioni di sterline = 122 milioni di marchi
1875 8.500 milioni di sterline = 170 milioni di marchi

Per quanto riguarda la devastazione dei mezzi di produzione e dei prodotti nelle crisi, la perdita complessiva della sola industria siderurgica tedesca nell'ultimo crac fu valutata intorno a 445 milioni di marchi, al secondo congresso degli industriali tedeschi, Berlino, 21 febbraio 1878. (nota di Friedrich Engels)

Le cifre qui pubblicate sulla somma totale delle ricchezze della Gran Bretagna e dell'Irlanda sono ricavate dalla conferenza di Robert Giffen sull'accumulazione di capitale nel regno Unito ("Recent accumulation of capital in the United Kingdom"), tenuta il 15 gennaio 1878 alla Statistical Society e stampata sul londinese "Journal of the Statistical Society", marzo 1878.

 


[Home] [Top]